A cura di Irene Ambrosaino, Marta Buccheri, Asia marchese, Chiara Maria Parrinello, Adriana Riccobono, Mariasole Salamone, Emanuele Scordo
La professoressa Giovanna Perricone, Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, ci ha concesso un’intervista per parlare di un progetto di prevenzione delle dipendenze “Noi siamo Oggi”, ideato dal Garante e dal suo staff per le scuole, nell’ambito degli interventi promossi dall’Assessorato all’Istruzione del Comune di Palermo. L’intervista, oltre ad approfondire i meccanismi della dipendenza e affrontare il tema della prevenzione, gradualmente, si è trasformata in un dialogo aperto, chiaro, schietto sulla vita. E pur nella distanza generazionale, si è creata una relazione, perché la ricerca di senso e significato ci riguarda tutte e tutti, giovani e non.
Ma entriamo nel merito delle questioni affrontate con la nostra prima domanda sul progetto “Noi siamo oggi”.
Carlotta T.: Perché è stato scelto di dare questo titolo al progetto “Noi siamo Oggi”?
Garante: La scelta appartiene solo in parte al gruppo di lavoro dell’Unità del Garante. È frutto, piuttosto, del confronto con le studentesse e degli studenti della Consulta Provinciale, che hanno contribuito portando le loro riflessioni sulla condizione giovanile. Nell’affrontare il tema delle dipendenze, possiamo dire che abbiamo cercato di sintonizzarci sulla prospettiva dei giovani poiché, mentre noi adulti siamo portati a concentrarci sul futuro, sugli esiti, sulle trasformazioni di una condizione di fragilità che diventa vulnerabilità, come nel caso della dipendenza; i giovani, invece, hanno una visione del tema legata al presente e chiedono di sintonizzarci sulla loro realtà e sui loro bisogni “oggi”, prospettiva che intende seguire il progetto per un intervento efficace.
Chiara P.: A che punto del suo sviluppo è giunto il progetto? E quali scuole coinvolge?
Garante: Una volta definito, il progetto è stato presentato all’Amministrazione comunale che l’ha approvato stanziando un piccolo fondo. Abbiamo ritenuto importante questo passaggio considerato che è fondamentale l’assunzione di responsabilità della Città di fronte ad un progetto che intende fare prevenzione delle dipendenze nel territorio. Altro passaggio fondamentale è stato l’individuazione, tramite Bando del Comune, dell’Istituto capofila, l’Istituto Comprensivo Giuseppe Scelsa, che gestirà amministrativamente il progetto. Quindi, l’Ufficio del Garante, la dottoressa Maria Sparacino, Responsabile dell’Ufficio per la scuola dell’obbligo e contrasto della dispersione a Palermo, la professoressa Daniela Miceli, Dirigente scolastica della scuola capofila, hanno avviato Protocolli d’Intesa per coinvolgere le altre realtà del territorio come il Dipartimento della Salute e della Famiglia, il Dipartimento di Salute Mentale e il Servizio di Psicologia, a voi dedicati. Siamo in questa fase di delineazione di tutti i passaggi esecutivi, ma non abbiamo ancora individuato le singole scuole destinatarie degli interventi. L’idea è di dividere la città in quattro grandi aree all’interno delle quali individuare Istituti Secondari di II grado e Istituti Secondari di I grado. In entrambi saranno presenti i soggetti cui è rivolto il progetto: i tutor, ragazze e ragazzi degli Istituti Superiori, che verranno formati come peer educator; e i fruitori del servizio di Peer Education, i più piccoli di età della scuola media, che fruiranno dei percorsi di prevenzione. Il percorso è pensato in modo da creare un intreccio tra i peer educator delle classi quarte ai quali verranno affidati i ragazzi delle classi prime di una scuola media differente dalla loro. Ovviamente, anche i peer educator saranno i destinatari di un’azione di prevenzione, attraverso la specifica formazione e il costante supporto che verrà loro fornito nell’espletamento del loro compito.
Alessandra S.: Per quale motivo si può considerare un progetto innovativo?
Garante: Sorrido un attimo compiaciuta, perché mi viene in mente l’espressione napoletana «Ogne scarrafone è bell’a mamma soja». Nel senso che evidentemente chi ha definito il progetto lo ritiene esplosivo, meraviglioso, incredibile! Ma usciamo da questo delirio per tornare alla realtà. La storia della prevenzione delle dipendenze ha delle caratteristiche ben precise. Inizialmente si è ritenuto opportuno organizzare grandi seminari fatti da esperti, come il chimico o il neuropsichiatra, in grado di spiegare il funzionamento compromesso delle interconnessioni cerebrali nei soggetti con dipendenza. Le Neuroscienze del resto ci dicono che sono le interconnessioni cerebrali deficitarie che creano una sorta di circolo vizioso che alimenta il comportamento compulsivo caratteristico della dipendenza. Anche se meritoria, l’azione di prevenzione che si fonda sull’informazione si è rivelata poco efficace. Si è passati quindi ad un tipo di intervento in grado di far leva sul piano emotivo: la testimonianza di chi vittima della droga , ad esempio, ne è uscito, per far comprendere che la droga non la devi toccare. Ma qual è il pericolo insito nella testimonianza? Chi dà la propria testimonianza, se in effetti ti dà l’idea di che cosa è successo dentro di lui, ti trasmette anche l’illusione dell’eroe che può sempre risalire dal fondo, facendo passare il messaggio che dalla dipendenza si può uscire in qualunque momento. Il progetto di cui stiamo parlando non si sposa né con la prima né con la seconda visione, ma vuole essere una chiamata dei giovani, dai giovani, attraverso il linguaggio dei giovani. Ecco perché ci sembra in un certo senso innovativo. Ritorniamo quindi alle esperienze di Peer Education, non di per sé innovative, ma che col tempo sono state o dimenticate o interpretate in modo non corretto. Sarà centrale, in quella che vuole essere una corretta lettura dell’educazione fra pari, che la o il peer educator non sia lasciato da solo, ma sia a sua volta sostenuto da un educatore in modo tale che possa lavorare sulle sue naturali fragilità e irrobustirsi sempre più. È un po’ come quando si riusa un vestito vintage: abbiamo recuperato dentro questo progetto il modello della Peer Education, proprio quello dell’origine, rafforzando l’idea centrale che chi accompagna sia accompagnato.
Mariasole S.: Come docente universitaria, qual è la sua esperienza di ricerca e professionale nell’ambito delle dipendenze?
Garante: L’esperienza professionale nel campo della dipendenza ha inizio col mio percorso di docente di Psicologia dell’Educazione e Psicologia dello Sviluppo visto che quando parliamo di dipendenze stiamo parlando di un ambito strettamente attinente al processo di sviluppo della persona. La dipendenza, infatti, altera il processo di sviluppo, senza se e senza ma. Le funzioni meta-cognitive e i processi mentali, i tre domini cerebrali, dell’identità, delle emozioni e delle relazioni, sono stravolti dalla dipendenza. Ma tornando alla mia esperienza, ad un certo punto della mia carriera, accade che vengo coinvolta nel progetto regionale “Costruiamo La Salute”. All’interno del progetto era stato trascurato la parte psico-educativa, motivo per cui il Gruppo di Progetto mi affida questa articolazione rivolta alle scuole, che alla fine è diventata la parte portante. Mi sono innamorata di questo lavoro e ancora porto nel cuore la mia esperienza. In particolare una specifica attività ha portato ragazze e ragazzi molto giovani a capire quali sono i processi che governano la dipendenza. Abbiamo adoperato un testo filmico, altra forma di innovazione per quel tempo. Ma non si trattava di far vedere un film su un ragazzo che fa uso di droga. Il mio obiettivo era portare i ragazzi a riconoscere i meccanismi della dipendenza e a riflettere su come funziona il cervello quando ci si trova una condizione di dipendenza. Il testo filmico in questione, “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore, narra la storia di un battitore d’asta, talmente dipendente dall’opera d’arte da essere vittima di una ricerca compulsiva. Faceva comprare a un prestanome le opere che conservava in un caveau dove si beava della sua collezione senza essere mai sazio, anzi, ne era sempre più ossessionato, un meccanismo molto simile alla ricerca della sostanza. La lettura dei meccanismi della dipendenza non è stata spiegata ai ragazzi, ma è stata ricostruita da loro e con loro attraverso una scheda di analisi filmica. Successivamente, chiamati in un talk show, gli stessi destinatari del progetto hanno spiegato tutti i processi che si innescano nella dipendenza.
Francesco R.: Cosa l’ha spinta a mettersi in gioco nel ruolo di Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, considerando che è un incarico a titolo gratuito?
Garante: Non può che essere a titolo gratuito, nella misura in cui evidentemente questo non è un lavoro. E sarebbe troppo semplice dire che sia stata la passione. Potrei rispondere la tensione che da sempre ho avuto, nel mio lavoro, verso i minori che in questa società non riescono a diventare “maggiori”, cioè non riescono a diventare soggetti che vengono ascoltati. Ecco perché il Magazine che realizzerete a conclusione del PCTO “Enterprise”, per il quale mi state intervistando, sarà introdotto da un mio intervento dedicato al valore dell’ascolto. Devo aggiungere che da Presidente della Società Italiana di Psicologia Pediatrica sono stata sempre guidata dall’idea che qualunque bambino o giovane in situazione di difficoltà deve essere garantito. Infine, mi preme sottolineare che la stima nei confronti del professore Roberto La Galla, nostro Sindaco e in precedenza mio Rettore all’Università, mi ha fortemente motivata a candidarmi per ricoprire l’incarico di Garante.
Soraya L.: Ritiene che la sua generazione sia tanto diversa e distante dalla nostra?
Garante: Guarda, io appartengo a quella generazione che ha fatto le lotte che hanno portato ad alcune leggi storiche della nostra Italia, alla generazione del Dopoguerra, del Boom economico, dell’emancipazione femminile. Anche noi trasgredivamo, poiché i meccanismi che governano l’età dell’adolescenza sono gli stessi, anche se è diverso cosa facevamo da giovani. Ma sapete qual è la grande differenza fra ieri e oggi? Posto che l’adolescente che non trasgredisce non è adolescente. Oggi, permettetemi di dire, si è modificato il senso della trasgressione. Oggi, i genitori non reggono la tensione del conflitto generazionale dove “dire No”, significa saper “gestire il No”. Motivo per cui se fino a qualche anno fa l’adolescente trasgrediva – ed è naturale che trasgredisse – ma era consapevole della trasgressione, oggi, la difficoltà a gestire i “No”, genera una sorta di confusione per cui molti giovani fanno delle cose trasgressive, ma ritengono che sia la normalità. E poi scarsa presenza di adulti autorevoli: i figli vanno sostenuti e protetti, ma noi non li proteggiamo se diamo loro sempre ragione. Infine non ci sono spazi di ascolto. Vedete, l’ascolto è diventato il mito della società, tutti dicono che si devono ascoltare i giovani; c’è qualcuno che dice che non si devono ascoltare i giovani? Nessuno. Però nella realtà questo castello di certezze crolla quando al “dire” non corrisponde la realtà: si tratta di un modo di dire ma non di essere. In Psicologia si dice che bisogna “agire l’archetipo dell’ascolto”, ciò significa che noi adulti dovremmo cercare di agire l’ascolto inteso come costruzione di relazioni profonde che mettiamo in campo sapendole gestire. So che alcuni di voi vedranno il lavoro di Cristicchi al teatro Biondo. Ad un certo punto, in questo lavoro si dice:« I medici, oggi, prescrivono relazioni umane». Ebbene, l’ascolto è un fatto di relazioni umane, che non significa dire sempre sì, ma anche porre limiti e confini. Oggi, quando vi rivolgete ad uno psicologo, l’andare in terapia, come si dice oggi, non consiste solo nell’ascoltarvi sic et simpliciter; ascoltandovi, lo psicologo ha il compito di darvi confini e limiti. Una persona senza confini è una persona a rischio. Sapete come spieghiamo il confine agli studenti di Psicologia? Come il grande abbraccio, una situazione in cui ti devi sentire protetto all’interno della quale, anche se l’adulto ti dice no, te lo deve dire senza farti sentire minacciato, perché il “no”, tra l’altro, ci tempra. Infine, sono dell’avviso che insieme all’ascolto, un concetto che oggi dobbiamo rispolverare è quello di restituire ai giovani il ruolo di “agenti”, che non significa semplicemente “essere attivi” quanto, piuttosto, la possibilità di stare al volante delle vostre scelte e delle vostre responsabilità. E per ritornare al vostro P.C.T.O. finalizzato alla realizzazione del Magazine, per il quale avete chiesto di intervistarmi, ha come obiettivo, da un lato, quello di ascoltarvi, partendo da voi, dall’altro, quello di consegnarvi la responsabilità. Gli strumenti di meta-cognizione che vi abbiamo consegnato, infatti, sono strumenti potentissimi grazie ai quali avete in mano il progetto. Questi strumenti, che analizzeremo durante l’ultimo incontro del 3 giugno, vi hanno consegnato il giudizio e la responsabilità verso il progetto.
Particolarmente significativa la conclusione dell’intervista in cui la Garante ha voluto consegnarci il suo punto di vista sul significato dell’esperienza.
Garante: Qual è l’elemento che fa dell’esperienza un fattore di cambiamento? Posso fare tutte le esperienze del mondo, ma se non ci ritorno su, a cosa è servita l’esperienza? Non mi ha lasciato niente, non ha contribuito al mio processo di trasformazione consapevole. Fondamentale per la Psicologia dello Sviluppo è la “mentalizzazione dell’esperienza”. Un esempio ci riporta alla relazione con gli adulti: se ho una relazione negativa con un adulto, come ho mentalizzato questa esperienza? L’ho mentallizzata come un’esperienza assolutamente negativa che mi ha fatto male? L’ho mentalizzata come un’esperienza superficiale? Riflettere su questo cambia la nostra vita, e ciò dipende da come mentalizziamo le esperienze. Un’altra cosa, ragazzi, sulla quale vi devo mettere in allerta, sapete oggi di che cosa è fatta la crisi adolescenziale, che non è più tanto fisiologica ma perdura nel tempo? Ecco un’altra risposta alla vostra precedente domanda sui cambiamenti e le distanze generazionali. Oggi i giovani hanno una certa difficoltà ad attribuire senso e significato alle cose della quotidianità, alle cose della vita; vivono la difficoltà del fermarsi per chiedersi: che senso ha ciò che mi è capitato? Che senso ha spogliarsi davanti a una telecamera? Che senso ha cambiare il naso? Forse, se ricercassimo il senso… E del resto, quando ci rivolgiamo ad un psicologo, “la mano con cui ci prende” è questa a condurci alla ricerca del senso. C’è un passaggio che ha molto a che fare con la dipendenza, il passaggio dalla fragilità, alla vulnerabilità, fino a giungere in estremis alla dipendenza. Fragilità è non sentirsi adeguato, un senso di disagio che ci fa diventare e sentire fragili. E se di fronte a questa fragilità non ci facciamo aiutare, proprio attraverso la ricerca del senso, del significato di ciò che viviamo e proviamo, la fragilità diventa vulnerabilità, e la vulnerabilità è la condizione “dell’essere ferito”, e questa condizione può portare a una dipendenza. Un’ultima cosa, a volte la superficialità dei genitori, e degli adulti in genere, deriva dalle pressioni e dalle tensioni, presenti anche nella vita adulta, in questa vita moderna estremamente complessa. Ma un ragazzo che si fortifica nei suoi significati diventa capace di mettersi all’attenzione dell’adulto, chiedendo l’ascolto che apre ad una relazione profonda e significativa che a sua volta lo protegge e lo tempra.
Luogo: Educandato Statale Maria Adelaide
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