ROMA (ITALPRESS) – “La strage di via D’Amelio è davvero la cronaca di una morte annunciata perchè se noi torniamo indietro al 23 maggio, giorno dell’attentato a Capaci, da quel momento cominciano i 57 giorni della morte annunciata di Paolo Borsellino. Tutti sapevano che era il giudice e amico più vicino a Giovanni Falcone ed era ovvio il rischio che correva. Eppure nessuno in via D’Amelio aveva istituito la zona rimozione per le auto, nessuno aveva provveduto a proteggere la vita di Borsellino”. Così il giornalista Umberto Lucentini, intervistato da Claudio Brachino per lo speciale Primo Piano dell’agenzia Italpress dedicato al 30ennale della strage di via D’Amelio.
Lucentini nel suo libro “Paolo Borsellino 1992… La verità negata” scritto con Lucia, Fiammetta e Manfredi Borsellino, figli del magistrato ucciso il 19 luglio del 1992 a Palermo, ricostruisce tutta la vita del giudice e ricorda il momento in cui arrivò in via D’Amelio: “C’era di tutto, eppure le indagini che dovevano occuparsi di preservare il luogo della strage non sono state dal punto di vista professionale ineccepibili. Poi c’è la storia dell’agenda rossa che teneva sempre con sè, quella agenda che era in auto nella borsa di Borsellino è sparita, si è saputo subito che mancava all’appello ma dell’agenda rossa non c’è traccia”. Nella strage persero la vita anche cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Walter Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.
“Borsellino – prosegue Lucentini – in quel periodo del 1992 a Palermo indagava per un certo periodo sul delitto di Salvo Lima, ma indagava anche sulle rivelazioni che stavano facendo importanti pentiti di mafia con un ruolo di primo piano ai vertici di Cosa Nostra e stava raccogliendo dichiarazioni che mettevano in luce le complicità con esponenti della politica e della magistratura. La mafia da sola aveva i propri interessi per eliminare Borsellino, ma sapeva che aveva un prezzo da pagare altissimo perchè dopo la morte di Falcone lo Stato aveva iniziato a reagire. Paolo Borsellino era una persona che aveva un altissimo senso delle istituzioni, quando negli ultimi giorni della sua vita ha cominciato a sapere da fonti attendibili che c’erano delle collusioni è stato fisicamente male, lo ha raccontato la moglie Agnese. Per lui, uomo di Stato tutto d’un pezzo, era impossibile ammettere che ci fosse qualcuno dei suoi colleghi o altri uomini delle istituzioni che potessero avere collusioni con la mafia”.
Lucentini sottolinea come per Borsellino la giustizia veniva prima di tutto, “una giustizia che deve essere veloce e giusta, lui non partiva da una tesi precostituita per arrivare a un obiettivo, raccoglieva fatti e testimonianze e dopo traeva le proprie conclusioni, è una eredità professionale ma anche morale ed etica perchè a lui non interessava raggiungere la propria tesi ma interessava avere giustizia. Borsellino – sottolinea – è un esempio, un’eredità che ci impone di scegliere da che parte stare. Ho una grandissima ammirazione, al di là dell’aspetto personale, per la signora Agnese e per Lucia, Manfredi e Fiammetta perchè hanno dimostrato con i loro comportamenti di vita quotidiana quanto siano i testimoni della grandissima umanità, profondità e generosità di Borsellino”. Infine un ricordo personale: “Era una persona di grande umanità e disponibilità verso il prossimo, senza un secondo fine. Io l’ho conosciuto a 24 anni, ero un giovane giornalista mentre lui era già un grande magistrato, quel giorno in cui lo vidi per la prima volta ho trovato un uomo grande e io mi sentii Enzo Biagi perchè mi dedicò tanto del suo tempo”, conclude Lucentini.

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