Giovanni Pizzo

Ex assessore della Regione Siciliana, scrivo su vari quotidiani. Laureato in economia e commercio

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C’è un uomo con in viso l’espressione del dolore, quello inconcepibile, senza rassegnazione, assurdo, che urla a bocca aperta, ma l’urlo è muto. Questo deve essere il dolore che si prova per la morte di una figlia, di un figlio, soprattutto quando è giovane, quando lei coltiva speranze di una vita tutta da spendere, quando noi vorremmo vederla crescere, esprimere il proprio potenziale, sentirla felice. Ma lei assurdamente muore, di colpo tutto quello che c’era prima viene cancellato, a volte c’è una spiegazione, forse, a volte non c’è un perché, e dalla notte dei tempi lo chiamiamo fato. È questo quello che è accaduto a Simona, la ragazza di Palermo deceduta qualche giorno fa, in quella ormai maledetta piscina di Bagheria, terra di artisti e cineasti, terra di poeti, solo che oggi i versi sono amari, sanno di cianuro come le mandorle. Per un genitore non c’è cosa che svuota, che dirompe le braccia, inginocchia le gambe, come una tale perdita. Simona il pomeriggio era viva, solare e forte, piena di salute e vitalità, e dopo poche ore è un corpo galleggiante in una piscina anonima affittata per una festa, una come tante che ognuno di noi conosce. – Dove vai? – chiedi a tua figlia che vedi carina e sorridente, con l’accessorio nuovo che si è comprata l’altro giorno. Può essere un compleanno, una laurea, una festa tra amici, o amici di amici. Ci si vuole divertire, l’età, i vent’anni, non chiede altro, lievità prima che la vita con le sue ansie, fatiche, preoccupazioni, appesantisca le ali della nostra esistenza. Il divertimento d’improvviso termina, l’allegria si spegne, le risa si spezzano, il fato, forse, arriva e porta il suo carico, a volte mortale.

Qualcosa nella morte di Simona non convince, l’alcool ormai dominante, in qualunque festa si beve come se non ci fosse un domani, soprattutto tra i giovanissimi, sembra del tutto assente, praticamente un’ipotesi del terzo tipo. E poi il corpo che galleggia in uno spazio tutto sommato piccolo, davanti a tutti, senza che nessuno intervenga, se non troppo tardi. Cosa è successo lo scopriranno gli inquirenti, già si annunciano dinamiche probatorie, perizie tecniche sempre discrezionali, l’arrivo di tanti avvocati a difesa di questi giovani presenti. Ma a parte un infarto fulminante, cosa molto improbabile per una sportiva a livello agonistico, dotata per obblighi di legge a visite sportive e controlli periodici, cosa è successo è solo ridda di ipotesi, ognuno con le sue, ciascuna diversa e diciamolo, morbose.

Ma il fatto che la frase più ripetuta tra i giovani interrogati dalle forze dell’ordine sia stata “non ci siamo accorti di nulla”, è sconcertante ma perfettamente usuale. Questa generazione è assolutamente chiusa in autismi diffusi, ognuno chiuso nel proprio io o di due al massimo collegamenti ultronei. Ciascuno si fa i cosiddetti fatti propri, non guarda, per carenza di apertura e concentrazione altro da se, mentre si beve il suo drink, qui incredibilmente scomparso, o compulsa qualcuno. Più che una umanità insieme sembrano una folla senza empatia, senza pietas. Lei galleggiava nell’acqua, loro continuavano a bere o a parlare, di cosa non sappiamo. Se fosse una foto istantanea, scattata dall’alto, con un drone, potremmo intitolarla l’indifferenza. L’immagine della assoluta banalità del male, l’omissione di interesse, attenzione, soccorso. Questo hanno bisogno gli esseri umani, non tanto di essere, rappresentarsi di un “io”, ma di un “noi”, di essere riconosciuti, attenzionati, quando serve soccorsi. Lo fanno anche gli animali nei branchi, non lasciano indietro volontariamente, istintivamente, nessuno. Se fosse colpa, che non ci auguriamo, di qualcuno paradossalmente ci potremmo assolvere, c’è un cattivo, la colpa è sua. Ma l’indifferenza ci accusa come gli occhi attoniti del dipinto di Munch. Se questa generazione non ha empatia verso gli altri è per paura e chiusura, se non ha slancio ed è indifferente la colpa è nostra, gli adulti, i genitori, nessuno escluso. Non è questione di valori, ma di chiusure all’umanità diffusa. Su tutto. L’importante, l’unica cosa degna di interesse, è farsi i fatti propri. L’altro è altro da me, ed il noi non è più una categoria di questo millennio. Può rimanere a galleggiare.

 

 

 

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