Il poliziesco, in Italia giallo, è un genere narrativo dalle tante sfaccettature. Di solito, nel giallo il racconto ruota attorno a uno o più delitti resi misteriosi per le circostanze in cui sono stati commessi. Al centro della narrazione vi sono, il più delle volte, un intrigo difficile da risolvere e un colpevole da scoprire.

Ma è sempre così? E’ sempre l’enigma poliziesco, cerebrale al punto di diventare un autentico rompicapo per esperti, il nucleo del giallo? La risposta è negativa se si pensa a scrittori classici di gialli come Chesterton o come Simenon, nei cui romanzi e racconti il rebus legato al delitto è ridotto ai minimi termini e ciò che interessa agli autori è ben altro dall’alimentare quel rebus: cogliere negli eventi la presenza di Dio nel primo, scavare dentro l’anima degli uomini e descrivere la provincia francese nel secondo.

E la risposta è ancora no se si guarda a grandi scrittori di gialli contemporanei, a cominciare da Camilleri (in fondo un nipotino si Simenon), il cui talento accompagnato dal meritato eclatante successo è nell’avere inventato una lingua in cui si mescolano felicemente l’italiano e il dialetto siciliano e nel raccontare una Sicilia metafora dell’universo solo apparentemente legata a stereotipi.

Tra i non pochi atipici scrittori di gialli dei nostri giorni, e tra i più originali, vi è Gaetano Savatteri. Dopo due romanzi gialli e tanti racconti con la coppia di investigatori per caso Saverio Lamanna e Peppe Piccionello, Savatteri può fregiarsi dell’etichetta di giallista, sebbene la sua ricca produzione narrativa e saggistica sia variegata.

Il suo secondo romanzo giallo, dopo La fabbrica delle stelle, è Il delitto di Kolymbetra, entrambi editi da Sellerio. In questo romanzo Saverio Lamanna, giornalista free lance col vizio di complicarsi la vita ficcando il naso in oscuri delitti, s’imbatte –con lui, naturalmente, lo scudiero Peppe Piccionello – nell’omicidio di un solone dell’archeologia in visita alla Valle dei Templi per annunciare la scoperta di un teatro tra quelle antiche pietre. Ma la scoperta si rivela fatale per l’illustre e anziano professore Demetrio Alù: l’archeologo lascia le penne nell’incantevole giardino di Kolymbetra, dove viene rinvenuto il suo cadavere. A sua insaputa, dietro la localizzazione del teatro vi è un non indifferente giro di affari milionari.

Va notato che l’omicidio viene annunciato nel romanzo, peraltro non lungo, dopo ben 80 pagine. Giusto chiedersi quanto incida nell’economia del romanzo il mistero del delitto, i personaggi che lo circondano, i fatti che da esso si sviluppano. Dovessimo stabilire una percentuale, non andremmo oltre il trenta per cento.

Savatteri crea la suspense del delitto inatteso, ci descrive la corte che attornia l’archeologo –sono tutti, per un verso e per l’altro, sospettabili -, movimenta la storia inserendo momenti d’azione: e in ciò mostra sufficiente mestiere. Ma il vero protagonista del romanzo non è il delitto dell’archeologo, né l’indagine che ne consegue: è invece la Sicilia, in quello spicchio che tanto la rappresenta qual è l’agrigentino.

E la Sicilia su cui si posa lo sguardo disincantato di Lamanna-Savatteri non è la Sicilia di una volta, resa volgare da troppi luoghi comuni e da eccesso di folklore; è una terra che, pur legata all’antico, va mutando pelle: accanto alla Valle dei Templi s’erge il singolare polo turistico d’arte contemporanea del Farm Cultural Park di Favara, le rovine dell’archeologia convivono con le rovine di città aggredite dall’abusivismo, la mafia s’insinua negli affari e si confonde con l’antimafia, le ragazze continuano a sedurre con la loro bellezza ma non sono castigate in costumi esageratamente morigerati, non esitano a lasciare l’isola e non si chiamano più Calogera o Concetta.

Il delitto di Kolymbetra è un romanzo accattivante non certo per il mistero che crea attorno all’omicidio del professore Alù, ma per i fitti e rapidi dialoghi che lo popolano: i dialoghi tra Lamanna e Piccionello, tra l’investigatore giornalista precario e la sua bella fidanzata milanese Suleima e i tanti altri conditi di citazioni colte e pop in cui emerge un’ironia dissacratoria (-Saverio, siamo in Sicilia. La prudenza non è mai troppa. –L’unica vera prudenza sarebbe quella di non nascerci. Ma ormai è fatta).

Già, l’ironia: è proprio l’ironia –sorniona, tagliente, irriverente – la cifra stilistica di Gaetano Savatteri. Al punto che un autorevolissimo critico letterario, Antonio D’Orrico, in un autorevolissimo foglio – La lettura, l’inserto culturale domenicale del Corriere della sera –, recensendo la recente antologia della Sellerio Una giornata in giallo ed entusiasta di un suo racconto, si è spinto a definire Savatteri ‹‹ l’unico erede di Ennio Flaiano››.

A conferma del suo spirito canzonatorio, in questo romanzo dal ritmo incalzante (la scelta, inusuale per la narrazione, del presente ne accentua la vivacità), pirandellianamente sospeso tra realtà e finzione e non privo di riferimenti personali (il ricordo della madre che talvolta riaffiora e, a conclusione, la citazione di Leonardo Sciascia), Savatteri riesce a scherzare anche sull’assai lusinghiero accostamento a Flaiano sprizzando ironia verso se stesso: ‹‹La cena è stata dominata da Mimì che ha corteggiato spudoratamente Suleima cercando di spiegarle perché non potrò mai diventare Ennio Flaiano, essendo geneticamente sprovvisto della vena di amarezza e di inappagamento invece propria dello scrittore pescarese››.

Il delitto di Kolymbetra è un romanzo da leggere, soprattutto da chi considera i gialli narrativa di second’ordine.