Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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C’è qualcosa di profondamente simbolico nel rinvio del primo vertice russo-arabo della storia. Doveva essere il trionfo diplomatico di Vladimir Putin, il segno tangibile che la Russia resta un polo centrale del mondo multipolare. E invece si è rivelato un passo nel vuoto, un appuntamento con il silenzio.

Il summit, annunciato ad aprile e previsto per il 15 ottobre, avrebbe dovuto riunire i ventidue leader della Lega degli Stati Arabi a Mosca. 

Ma i “pesi massimi” — l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l’Egitto — hanno declinato. Hanno scelto di non farsi vedere accanto al Cremlino in un momento in cui la guerra in Ucraina, le tensioni energetiche e la crisi di Gaza rendono ogni gesto un segnale politico.

Il Cremlino ha parlato di “rinvio tecnico”, attribuendolo al “piano di pacificazione a Gaza promosso da Trump”. 

Una spiegazione comoda, forse vera in parte. Ma dietro si intravede il senso più profondo: la Russia non incanta più.

Ogni potere, quando dura troppo, dimentica il limite. Si convince che basti la volontà per piegare il mondo, che gli alleati non possano sottrarsi. Putin ha costruito la sua visione geopolitica sull’idea che l’Occidente sia in declino e che il “resto del mondo” cerchi un nuovo punto di gravità. Ma il resto del mondo non è una massa compatta; è un mosaico di interessi, timori e contraddizioni.

I leader arabi — pragmatici, prudenti, attenti ai propri equilibri — hanno preferito non esporsi.

Perché partecipare a un vertice che rischia di sembrare una sfida all’Occidente, quando le proprie economie dipendono dagli investimenti americani, europei o cinesi? Perché schierarsi accanto a un alleato che porta con sé sanzioni, diffidenza e conflitti aperti?

La realtà è che il potere russo non è più magnetico: è difensivo. E il potere che si difende non convince più.

In diplomazia, come nella vita, il consenso non si compra con la forza. Si costruisce con la fiducia.

Putin, che per anni ha coltivato l’immagine del leader necessario, si trova ora a scoprire che nessuno è indispensabile.

La sua Russia paga la solitudine: quella che segue l’esercizio prolungato dell’autorità, quando il comando diventa abitudine e la parola perde peso.

Il vertice mancato non è un incidente tecnico. È un segnale politico. Significa che anche gli alleati più cauti cominciano a prendere le distanze. 

Che la “neutralità” verso la Russia non è più neutra, ma calcolo. Che il potere del Cremlino — dopo anni di retorica e di scontri — comincia a incontrare la resistenza del mondo.

“Anche Putin paga dazio”, dunque.

Paga il dazio della realtà, che non è più quella dei sogni imperiali ma quella dei limiti. Paga la perdita del fascino, che è la prima sconfitta di ogni leader. Paga il tempo, che consuma anche gli uomini di ferro.

La Russia, oggi, non è più l’alternativa, ma l’eccezione.

E le eccezioni, nella storia, vivono male.

Putin può ancora vantare eserciti, alleanze tattiche, gasdotti e missili, ma non può imporre ciò che manca: l’attrazione morale, la fiducia, la credibilità.

Il suo mondo multipolare è un orizzonte fatto di convenienze momentanee, non di convinzioni.

In fondo, è il destino di tutti i poteri che non si rinnovano: credere di possedere la scena, quando in realtà il sipario è già calato. Le sale del Cremlino, preparate per un vertice mai nato, raccontano più di un fallimento politico: raccontano il crepuscolo di una certezza.

La storia, diceva Hegel, è la progressiva coscienza della libertà. E la libertà non si costruisce né con la paura, né con i muri, né con le guerre.

Forse, anche Putin dovrà riconoscerlo.

Perché il mondo che cambia non chiede solo potenza: chiede credibilità.

E il tempo — il solo giudice imparziale — presenta sempre il conto.

Anche Putin paga dazio.

Non all’Occidente, non agli avversari, ma al tempo stesso.

E il tempo, come sempre, non fa sconti a nessuno.

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