Salvatore Zichichi
Salvatore Zichichi è un medico per devozione, mente innovativa e nerd, crede nelle relazioni umane come leva per trasformare la sanità e la realtà.
In guerra, tutto cambia in modo radicale e sostanziale. Toccando corde che incidono la nostra stessa esistenza e i nostri principi più saldi e vivi. Ogni parola pesa in modo differente, ogni gesto si scolpisce nella carne e nella memoria, ogni silenzio si fa più rumoroso delle bombe e sveglia paure che non pensavamo di poter vivere. Ogni scelta ha un esito tremendamente reale. Non è virtuale. E’ sangue e carne. Emozioni e desideri. Ricordi e pensieri.
La medicina, nei teatri di guerra, è molto più che un servizio: è una forma di resistenza, un atto di dignità umana. E’ il tentativo di contenere il dolore. E non è vero, come a volte si semplifica, dicendo che “la guerra accelera il progresso scientifico”. Lo fa, certo, ma lo fa nel modo più crudele possibile: costringendo la scienza a farsi strumento di sopravvivenza, non di cura. Le trasfusioni, la chirurgia plastica, il triage, l’anestesia moderna sono figlie anche delle guerre. Ma a quale prezzo? Durante la Prima guerra mondiale, ad esempio, furono sviluppate le prime banche del sangue, mentre in Vietnam si affinò la chirurgia vascolare in condizioni estreme. Innovazioni nate sotto il fuoco incrociato.
La guerra ha generato conoscenza medica talvolta, ma l’ha fatto partendo dalla negazione della salute. Dal dolore, dalla necessità di trovare soluzioni a problemi nuovi con quello che si ha a disposizione. Dalla necessità di aiutare. Di non stare a guardare. I conflitti armati di oggi, dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, mostrano con chiarezza che la salute è non solo una vittima, ma sempre più anche un bersaglio.
Ospedali attaccati, ambulanze bloccate, medici presi di mira, farmaci negati, persone abbandonate. Il 2023 ha visto oltre 1500 attacchi deliberati a strutture sanitarie. Nelle zone di guerra la sopravvivenza ai tumori è crollata a causa della mancata erogazione di cure. In Teatri di guerra, gli operatori sanitari vengono evacuati a forza, lasciando indietro pazienti e neonati. L’attacco all’ospedale Al-Shifa nella Striscia di Gaza è diventato emblema di come la neutralità sanitaria sia oggi sempre meno rispettata. A rendere ancor più tragico lo scenario, come riportato nel rapporto “The Effects on Health Care of the Use of Explosive Weapons” di Insecurity Insight (luglio 2024), è il fatto che l’impiego di armi esplosive in contesti urbani densamente popolati ha effetti devastanti e cumulativi sull’intero sistema sanitario. Gli ospedali non solo vengono danneggiati fisicamente, ma perdono accesso a corrente elettrica, acqua, vie di comunicazione e personale medico, con un impatto a lungo termine sulla possibilità di fornire anche le cure più basilari. Il collasso dell’infrastruttura sanitaria non è solo un effetto collaterale: è spesso una conseguenza diretta e prevedibile delle modalità con cui vengono condotte le operazioni militari.
Ma l’aspetto forse più devastante è quello invisibile: la salute mentale.
Le guerre, come dimostrato in più studi, lasciano una ferita psichica difficile da rimarginare. Bambini con incubi ricorrenti, donne traumatizzate dai parti sotto le bombe, uomini distrutti dal senso di impotenza. Il disturbo post traumatico da stress (PTSD) è una piaga che con tutti questi scenari di guerra andrà aumentando sempre di più. Come una silente marea che sale. Secondo i dati UNICEF, nei bambini ucraini esposti al conflitto il rischio di sintomi da stress post-traumatico raggiunge il 60-70%.
Eppure, mentre si combatte e si muore, c’è chi cura. Chi resta. Chi accende una luce dove tutto sembra buio. Come i colleghi che continuano a lavorare in ospedale sotto i bombardamenti per non abbandonare i piccoli e grandi pazienti in terapia intensiva con difficoltà logistiche ed impatti emotivi impensabili.
Un amico anestesista, che ha deciso di inseguire i suoi sogni e desideri, prima di lasciare il “posto fisso” in italia è partito per qualche mese in una zona dell’Africa. Dove ha contributo con la sua umanità e capacità di “essere presente” mentalmente e come essere umano a dare il suo piccolo contributo in luoghi dove la corrente elettrica, l’acqua potabile, scegliere se spendere pochi euro per salvare una persona possono cambiare equilibri delicatissimi, trovare soluzioni a problemi prima non conosciuti. Non noti. Perchè fortunatamente in Italia abbiamo il nostro SSN a tutelarci. Non dovremmo darlo per scontato. Dovremmo difenderlo con le unghie e con i denti. Con ogni fibra che ci resta. Per noi, per i nostri cari, per i nostri figli.
La Croce Rossa Internazionale, Medici Senza Frontiere, le ONG locali e i volontari dei sistemi sanitari pubblici portano avanti ogni giorno, in silenzio, una medicina che si adatta al territorio, allo scenario, ma con un’etica incrollabile ed immutabile: curare chi ha bisogno, senza guardare il passaporto, la divisa o la bandiera. L’obiettivo è sempre lo stesso: esserci ovunque, per chiunque.
Nella medicina di guerra non si lavora per specialità, ma per urgenza. Non si cura solo il corpo, ma anche lo sguardo. Si bendano ferite, ma si tengono le mani. Si cerca un farmaco, ma si offre anche una parola. Perché la medicina, in quei luoghi, torna ad essere ciò che era nel suo significato più profondo: un gesto umano. In un ospedale da campo di Medici Senza Frontiere a Rafah, ad esempio, un chirurgo raccontava di dover operare fratture esposte con solo disinfettante, morfina razionata e lampade a batteria.
Come scriveva Henry Dunant, fondatore della Croce Rossa, dopo aver visto la carneficina di Solferino: “Tutti fratelli”. E proprio in guerra, dove ogni logica di fratellanza sembra scomparire, il medico è colui che la rende viva.
C’è qualcosa di sacro nel curare sotto il fuoco. Non è eroismo, è umanità. Necessità di contenere il dolore. Di alleviare la sofferenza. Una medicina che non divide, ma unisce. Che non conquista, ma accoglie in tutti i contesti ed in tutte le declinazioni. E che nel fare questo, nonostante tutto, resiste.


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