Davide Romano

Davide Romano è attivo nel mondo del volontariato e appassionato di studi religiosi, lavora da molti anni nell’ambito della comunicazione politica, culturale, religiosa e sindacale.

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C’è qualcosa di tragicamente poetico nel sapere che la Sicilia, terra che ha dato i natali a Pirandello e Sciascia, a Tomasi di Lampedusa e a Camilleri, sia oggi la regione d’Italia dove si legge di meno. È come scoprire che Stratford-upon-Avon abbia bandito Shakespeare o che a Parigi abbiano chiuso il Louvre per mancanza di interesse. Ma i numeri, si sa, sono testardi quanto la realtà che fotografano, e l’indagine dell’Associazione Italiana Editori condotta da Pepe Research non lascia spazio a interpretazioni benevole.


I dati sono impietosi: solo il 56% dei siciliani sopra i 15 anni ha letto almeno un libro nell’ultimo anno, diciassette punti percentuali sotto la media del Centro-Nord che si attesta al 73%. La Sicilia condivide questo primato negativo con Abruzzo e Molise, piazzandosi al fondo della classifica nazionale della lettura. È uno spaccato amaro di un’isola che sembra aver voltato le spalle alla propria stessa grandezza culturale.


Ma il dato che più di tutti fotografa la dimensione del disastro è questo: per ogni libro che viene preso in prestito da un cittadino siciliano, ventiquattro ne vengono presi in prestito da un cittadino del Centro-Nord. I prestiti per mille abitanti sono 31 in Sicilia contro i 741 nel Centro-Nord. Ventiquattro a uno. Non è una sconfitta, è una resa incondizionata alla mediocrità. È il certificato di morte di una civiltà che un tempo illuminava il Mediterraneo con la sua cultura.


Leonardo Sciascia, che di questa terra conosceva ogni piega dell’anima, aveva già intuito il dramma quando scriveva della “dilagante stupidità di oggi” e dell’attitudine siciliana a relegare se stessa in un particolarismo sterile. Il grande scrittore di Racalmuto – che oggi, come ci ricorda una recente inchiesta dell’Espresso, vede la sua casa natale ridotta quasi all’abbandono – aveva capito che la vera tragedia della Sicilia non stava nella povertà economica ma in quella culturale.


L’infrastruttura del libro in Sicilia è al collasso. Metà delle biblioteche siciliane (47,4%) non ha nemmeno un bibliotecario professionalmente qualificato, contro il 25% del Centro-Nord. Pensateci: luoghi deputati alla conservazione e diffusione del sapere affidati al caso, all’improvvisazione, alla buona volontà di qualche volontario. È come affidare un ospedale a chi ha solo letto qualche articolo di medicina su internet. Le biblioteche siciliane hanno il 28% di strutture in meno rispetto al Centro-Nord in rapporto alla popolazione e possiedono in media il 16% di libri in meno: 2.738 volumi contro 3.244.


Trecentocinque comuni siciliani – il 78% del totale – non hanno nemmeno una libreria. Sono 203 le librerie operative nell’intera regione: 4,2 per 100mila abitanti contro le 6,4 del Centro-Nord. Oltre un milione e mezzo di siciliani (1.506.000 abitanti, per la precisione) vive in territori dove non esiste un luogo fisico dedicato al libro, dove non si può sfogliare una novità, partecipare a una presentazione, incontrare un autore. Il 31% dei cittadini siciliani non ha modo di accedere nel proprio territorio comunale a una libreria. Sono città e paesi che hanno deciso, più o meno consapevolmente, di vivere in un deserto culturale.


Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo immortale Gattopardo, aveva descritto con lucidità spietata l’immobilismo siciliano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ma oggi nemmeno il cambiamento apparente sembra interessare più. La Sicilia ha smesso di fingere, si è arresa all’inerzia culturale. Le parole del Principe di Salina risuonano profetiche: quella terra “condannata a una continua infelicità” sembra aver fatto della propria condanna una scelta consapevole.


Luigi Pirandello, che aveva intuito la complessità dell’animo siciliano meglio di chiunque altro, scriveva della necessità di uscire dall’isola per affermarsi: “Cu nesci, arrinesci” – chi esce, riesce. Ma oggi si potrebbe aggiungere: chi resta, si spegne. E si spegne nell’ignoranza, nella rinuncia alla curiosità, nell’abbandono di quel patrimonio di conoscenza che i grandi siciliani del passato avevano costruito con fatica e genio.


Non si tratta solo di numeri, naturalmente. Dietro ogni statistica c’è una scelta, spesso inconsapevole ma sempre drammatica. C’è la decisione di preferire il rumore alla riflessione, l’apparenza alla sostanza, il consumo alla conoscenza. C’è una società che ha smesso di credere che la cultura possa essere una leva di riscatto, un’arma contro l’ignoranza e la rassegnazione.


Il presidente dell’Associazione Italiana Editori, Innocenzo Cipolletta, prova a essere ottimista parlando delle risorse disponibili: “Le risorse ci sono: il Piano nazionale cultura per le regioni del Mezzogiorno destina 151 milioni di euro alle imprese culturali e creative e 177 milioni a favorire la partecipazione culturale”. Ma i soldi, da soli, non fanno miracoli. Servono visione, competenza, passione. Serve soprattutto la volontà di cambiare, di rompere con un presente che condanna al sottosviluppo culturale.


Cipolletta definisce “preoccupanti” questi dati, sottolineando come “la mancanza di infrastrutture per la lettura, biblioteche e librerie in primis, siano strettamente correlate ai bassi indici di lettura”. L’auspicio è che “nei prossimi mesi istituzioni, operatori privati e terzo settore lavorino assieme perché questo possa tradursi in un rafforzamento delle infrastrutture del libro”. Ma l’auspicio, senza una rivoluzione culturale profonda, rischia di rimanere tale.


La verità è che la Sicilia ha smesso di essere curiosa. Ha rinunciato al piacere della scoperta, all’emozione dell’apprendimento, alla fatica dolce del pensiero. Si è accontentata di vivere di rendita su un passato glorioso, come un aristocratico decaduto che vive vendendo i quadri di famiglia. Ma i capolavori di Verga e Pirandello non possono nutrire per sempre l’orgoglio di un popolo che ha smesso di alimentare la propria intelligenza.


C’è qualcosa di profondamente melanconico nel pensare che in quella stessa Sicilia dove Archimede scoprì il principio che porta il suo nome, dove Federico II creò la prima università laica d’Europa, dove nacque la Scuola Poetica Siciliana che diede origine alla letteratura italiana, oggi si faccia fatica a trovare una libreria aperta o una biblioteca funzionante. È la parabola di una civiltà che ha dimenticato se stessa.


Come ebbe a dire Michele Placido, “dobbiamo ricordare che la Sicilia è terra di Archimede non terra di mafia”. Ma per ricordarlo bisogna prima saperlo, e per saperlo bisogna leggere, studiare, coltivare la mente. Invece la Sicilia di oggi sembra aver scelto l’ignoranza come forma di identità, scambiando l’incultura per autenticità e la rassegnazione per saggezza.


Non serve a nulla puntare il dito contro il Nord, invocare le differenze storiche, tirare in ballo la questione meridionale. La cultura non conosce geografia, non ha bisogno di infrastrutture miliardarie per fiorire. Ha bisogno di curiosità, di fame di sapere, di rispetto per la conoscenza. Cose che non si possono comprare con i fondi europei o regalare con i decreti ministeriali.


La Sicilia che non legge è una Sicilia che ha rinunciato al futuro. Perché senza libri non c’è immaginazione, senza immaginazione non c’è progetto, senza progetto non c’è speranza. E una terra senza speranza è solo un pezzo di roccia circondato dal mare, bella da vedere ma sterile da vivere.


Forse è tempo di ammettere che il vero dramma del Mezzogiorno non sta nella mancanza di lavoro o nelle carenze infrastrutturali. Sta nell’aver perso la voglia di crescere, di migliorarsi, di sognare attraverso le pagine di un libro. Sta nell’aver scambiato la rassegnazione per saggezza e l’ignoranza per autenticità.

(Davide Romano)

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