Salvatore Zichichi

Salvatore Zichichi è un medico per devozione, mente innovativa e nerd, crede nelle relazioni umane come leva per trasformare la sanità e la realtà.

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Il tempo è il valore, la valuta più rara e unica che abbiamo. 

Il tempo non è ovunque lo stesso. 
Lo vediamo sulla nostra pelle come 1 minuto possa durare 1h e come la stessa ora possa durare 1 minuto. 



Ci sono luoghi, carichi di emotività e professionalità, in cui il tempo sembra avere un altro ritmo. 
Dove i minuti sono più lunghi, le attese più silenziose o estremamente rumorose, le parole più pesanti.

Uno di questi luoghi è il pronto soccorso.
 Luogo dove il tempo fa da padrone, negli interventi, negli accessi, nelle attese. 

Chi ci entra, spesso, non lo fa solo per un malessere fisico. Ci arriva con un carico di paure, di solitudini, di domande che non hanno ancora trovato risposte. A volte ci arriva perché non sa dove altro andare. Perché fuori da lì, nei territori, quel bisogno non ha ancora trovato un posto dove essere accolto.

E allora il PS come la Guardia Medica diventa tutto: medico di base, specialista, conforto, diagnosi, certezza.

Ma può davvero essere tutto questo, da solo? La verità è che il sistema dell’assistenza ed in particolare dell’emergenza-urgenza, oggi in Italia, sta gridando. Come fa ormai da anni. 


Non è solo una questione di “numeri” o di “costi”. È una questione di persone, di evoluzione di un sistema imbrigliato in norme.
Secondo la FNOMCeO e tantissime altre associazioni di categoria, mancano migliaia di medici nei reparti di emergenza, e ancora più numerosi sono gli infermieri che lasciano o scelgono altri percorsi. Perché?
Perché l’urgenza, tra tutte le forme di assistenza che già ti rapiscono, ti assorbe più di tutte.


Ti chiede tutto, ogni giorno, con ritmi spesso insostenibili. 
E se non c’è un sistema che ti sostiene, ti ascolta, ti forma, ti protegge e valorizza… allora è più facile andarsene. Anche quando quella magari all’inizio è stato il motivo per cui hai scelto medicina o infermieristica. 


E’ un problema che logora non solo la Sanità. Ma anche la Sanità. Oltre 1 milione di giovani sotto i 35 anni nell’ultimo decennio ha lasciato l’Italia. Non è una fuga solo dei più capaci. E’ un esodo di massa. Su 156 mila italiani emigrati nel 2024, solamente 53 mila hanno deciso di rientrare. 

E tra questi inevitabilmente anche medici, infermieri ed altri professionisti della salute. 

Ma allora, da dove ripartire? Ripartire, oggi, significa cambiare sguardo. Cambiare passo. Significa cominciare ad operare in quelle piccole cose che devono fare la differenza, mentre il sistema speriamo si sbrighi a diventare competitivo e concorrenziale in un mercato globale che non può continuare a guardare il locale. Dobbiamo fare sistema, oggi più che mai. In un mondo dove i conflitti locali o globali sembrano dietro l’angolo concentrarsi sull’umano che c’è in noi ed in chi ci sta vicino diventa una pietra angolare, miliare per riuscire ad evolverci verso soluzioni a cui non abbiamo ancora pensato. Significa smettere di pensare per punti ed ad esempio significa smettere di credere che il pronto soccorso sia un’isola lontana da tutti, accesso e risoluzione per tutti i problemi.
Bisogna iniziare a costruire ponti, non solo tra reparti, ma tra mondi, tra le persone.

Con un continuo scambio di informazioni e competenze. Il primo mondo è quello del territorio. Un territorio vivo, capace di rispondere prima che il problema diventi emergenza. Un territorio dove la gente vive e che ha la necessità di diventare accessibile nei tempi e nei servizi. Un territorio in grado di prevenire, immaginando scenari e possibilità.
Con medici di medicina generale in rete, capaci di sopportarsi a vicenda e di supportare il sistema, presenti, infermieri di comunità, sportelli di ascolto, case della salute, ambulatori aperti e accessibili. Un territorio che per fare ciò richiede organizzazione e risorse. Un territorio che non lascia solo nessuno, soprattutto i più fragili.

Il secondo mondo è quello del professionista sanitario.
Un medico o un’infermiera che non vuole solo “resistere”. Vuole formarsi, sentirsi parte di un progetto, crescere. Ha bisogno di sentirsi utile. Mentalmente stimolato ed umanamente curato. 

Non sono meri pezzi di un ingranaggio. Parliamo di Uomini e Donne con sogni, desideri, aspirazioni e si necessità.
Vuole avere il tempo per ascoltare un paziente, e non solo per misurare i parametri. Vuole un sistema che lo veda, che lo valorizzi, che lo faccia stare bene per potersi dedicare ai pazienti ed allo stesso tempo poter reggere la pressione e lo stress senza trascurare la sua di vita. Per poter ascoltare e comprendere il dolore e porre in essere soluzioni vecchie o nuove che possano essere. 

Ho imparato che a volte basta una frase per cambiare l’umore di un turno:
”Dottoressa, grazie per come mi ha guardato…”

“Dottore, tornerò qui perchè ci siamo trovati bene…”


“E’ bello sentirsi accolti ed ascoltati….”
Frasi che non ti dicono per la terapia per cui spesso si affidano ciecamente a te sanitario.
Ma per l’umanità, perchè hai prestato. Un prezioso momento di attenzione. 

E magari ti sei ricordato che sicuramente quella persona avrebbe preferito essere altrove piuttosto che in un qualsiasi ambulatorio. E se è la è perchè c’è una qualche sofferenza da risolvere. Capisci che anche dentro l’efficienza, la tecnologia, la burocrazia… c’è spazio per l’anima e se talvolta i processi si ricordassero di liberare i medici dalla burocrazia per cui non hanno studiato, sicuramente lo spazio per l’ascolto sono convinto crescerebbe proporzionalmente.
C’è spazio per il tocco umano, per la cura che accoglie e non solo che interviene schematicamente.

La vera sfida oggi non è solo “rispondere alle urgenze”.
È ricostruire la fiducia.

Fiducia tra le persone, tra le professionalità, nelle istituzioni, nei servizi, nelle relazioni tra chi cura e chi viene curato.
Fiducia che un bisogno non si perda nei rimbalzi, nei numeri, nelle scuse. Ma che si cerchino soluzioni sempre, ove umanamente possibile.

E questa fiducia si costruisce:


  • con una rete vera tra pronto soccorso e territorio;
  • con investimenti sulle persone, non solo sulle strutture;
  • con una formazione continua che non sia obbligo, ma opportunità di crescita umana e professionale;
  • con una sanità che sa parlare, che sa comunicare, ascoltare e parlare alla gente.


Non esiste un “prima linea” e un “dopo”.
 Esiste una linea continua di cura.

Esiste un lavorare insieme in modo sinergico. 
 Esiste un percorso, un sentiero, una evoluzione della cura e le mani che si uniscono nei passaggi di consegne e nella consapevolezza che nulla deve esser perso.  Fatta di persone che si passano puntualmente il testimone ogni giorno: dal medico del 118 all’infermiere della guardia medica, dal volontario, al medico di medicina generale, passando per l’ospedaliero.
Non sarà un cambiamento facile. 


Non sarà privo di sacrifici, errori e ridondanze. Non sarà nemmeno perfetto.
Come tutte le cose dell’uomo. Ma è l’unico percorso possibile se vogliamo restituire senso, dignità e calore a quella parola così semplice e potente: sanità. Quella che non è fatta solo per curare, ma ha dentro di se un carico più grande: prendersi cura di tutti. Sempre, e ovunque.

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