Salvatore Zichichi

Salvatore Zichichi è un medico per devozione, mente innovativa e nerd, crede nelle relazioni umane come leva per trasformare la sanità e la realtà.

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La pelle è il nostro primo contatto con il mondo. La nostra prima veste.

È quella che ci espone. Che ci racconta prima ancora di parlare. Quella che talvolta ci identifica, ci inserisce in una parte del mondo piuttosto che nell’altra.

Ed è proprio per questo che, quando si ammala, spesso non fa solo male. Fa vergognare. È la nostra prima veste che si macchia. Una che non possiamo cambiare.

Ne ho parlato con la Dott.ssa Federica Lupo, dermatologa competente e diretta, che della pelle ha imparato a leggere anche le storie invisibili. Facendone una professione che fa con passione e dedizione. 

Ha imparato a riconoscere quelle cicatrici che nessun esame di laboratorio ti mostra. Quelle che ti porti addosso.

“Mi vergogno di mostrarmi” spesso sente dire. 

E noi quante volte lo sentiamo dire?

Non dai grandi ustionati, non dai casi gravi, ma da persone come noi: adolescenti con acne, adulti con psoriasi sulle mani, donne con eczema cronico.

Quasi sempre, la malattia della pelle non fa solo prurito. Fa ritiro. Genera vergogna.  Isolamento. 

Dalle relazioni, dagli sguardi, dai luoghi comuni dove si viene giudicati. Perché nell’ignoranza magari vengono atribuite a scarsa pulizia o ad altro.

Federica me lo ha detto chiaramente:

“Non sono le lesioni a essere gravi. È lo sguardo del paziente verso se stesso che, spesso, diventa il vero problema.”

Io non sono psicologo. Ma da medico, e da persona che ha sempre avuto una certa attenzione per le emozioni degli altri, non posso più ignorare questo lato del dolore dermatologico.

C’è chi rinuncia al mare.

Chi si copre anche con 40 gradi.

Chi cambia autobus per non sedersi accanto a qualcuno.

Chi evita il contatto, gli abbracci, il sesso.

Chi, lentamente, si convince di essere “troppo brutto” per meritare qualcosa.

La cura è più ampia della pelle

Federica, come tanti medici che si dedicano ai pazienti, fa un lavoro prezioso. Ascolta, spiega, accompagna. Non giudica.

Usa la scienza, le linee guida, ma ci mette anche una sensibilità che si percepisce subito.

“Chi viene da me – mi dice – ha bisogno di sapere che c’è un modo per stare meglio, ma anche di sentirsi legittimato a mostrarsi così com’è, senza paura.”

E in effetti, il percorso comincia lì.

Dallo sguardo che accoglie. Dal linguaggio che non colpevolizza.

Dal farmaco, sì. Ma anche da una relazione che restituisce rispetto.

Il peso invisibile.

Non parliamo abbastanza di quanto impatti psicologicamente una patologia cutanea cronica.

Ansia. Isolamento. Disturbo dell’immagine corporea. Rabbia.

Spesso, depressione.

Eppure sono condizioni che vengono trattate, ancora oggi, quasi come se fossero solo un fatto estetico, che non colpisce l’intimo.

È una responsabilità anche nostra, come medici.

Servono più parole, più empatia, più tempo da dedicare.

Perché la pelle non è solo un involucro. È la mappa di quanto ci sentiamo accettati. Anche da noi stessi.

Se la pelle parla, ascoltiamola

La pelle dice. Dice se stiamo bene, se siamo infiammati, se stiamo implodendo.

E dice anche se ci stiamo lasciando andare.

Curarla non significa solo “farla guarire”.

Significa farci pace.

E per farlo, serve una medicina che non abbia paura di entrare anche nelle emozioni.

Che sappia guardare oltre la lesione.

Che non abbia fretta di guarire, ma voglia di capire.

Dedico queste righe a chi convive con una pelle che cambia, arrossa, si desquama, si infiamma.

A chi si è sentito dire “non è niente” quando dentro era tutto.

A chi ha nascosto più che mostrato.

Non siete soli.

E no, non siete sbagliati.

Grazie a Federica Lupo per avermi ricordato che spesso la pelle è solo il punto di partenza. Il resto lo fa chi guarda con rispetto, e chi non smette di curare anche quando non si vede nulla. E non cura solo quello che “si vede”.


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