Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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La diplomazia, lo sappiamo, è un’arte sottile. A volte persino impercettibile. 

È fatta di gesti piccoli che rimandano a significati grandi, di nomine che raccontano più di mille comunicati ufficiali. 

E allora, quando a Mosca viene mandato come ambasciatore Stefano Beltrame, figura da tempo vicina a Matteo Salvini e già protagonista di quel famoso viaggio russo del 2018 che dette origine al caso Metropol, è lecito chiedersi: che cosa vuole dirci il governo italiano con questa scelta?

Beltrame, sessantaquattro anni, carriera diplomatica solida e non priva di zone d’ombra, prende il posto di Cecilia Piccioni, spostata dopo poco più di un anno alla Direzione Generale per gli Affari Politici della Farnesina. Formalmente un incarico importante, ma assai meno operativo e molto più sotto controllo ministeriale. La sostanza è chiara: a Mosca si manda un uomo politicamente “fidato”, mentre la diplomatica di esperienza viene rimossa dal fronte più delicato.

Il nome di Beltrame evoca immediatamente quell’episodio del Metropol: il tentativo, poi naufragato nelle carte giudiziarie, di un finanziamento milionario alla Lega attraverso intermediazioni petrolifere. La giustizia non ha potuto accertare responsabilità penali, ma il retrogusto politico rimane. E oggi quell’organizzatore di viaggi controversi siede proprio là, a due passi dal Cremlino.

La domanda, allora, non è tanto perché lui. Ma: perché adesso? In un’Europa che si compatta, seppur con mille esitazioni, nel sostegno a Kiev e nella diffidenza verso Putin, l’Italia sembra scegliere un profilo che guarda a est con maggiore benevolenza. È una mossa che può avere due letture: la prima è l’ennesimo segnale di quanto il peso della Lega continui a condizionare il governo Meloni; la seconda, più strategica, è il tentativo di ritagliarsi il ruolo di “poliziotto buono”, lasciando ad altri l’intransigenza verso Mosca.

Il problema, come sempre per l’Italia, è la credibilità. Non si tratta di aprire canali, che in diplomazia servono sempre, ma di come questi canali vengono percepiti dagli alleati. La storia europea recente ci insegna che ogni volta che Roma ha cercato vie traverse, ne è uscita con l’immagine di un Paese ambiguo, inaffidabile, costretto poi a rientrare nei ranghi senza aver ottenuto nulla in cambio. L’unica eccezione resta Mario Draghi, che con il suo rigore seppe ridare per un momento alla parola Italia un peso solido nei consessi europei.

Giorgia Meloni, galvanizzata dai riflettori internazionali e da qualche copertina che la descrive come leader emergente, sembra pensare di poter condurre un doppio gioco. Ma la politica estera non è un talk show: non vive di colpi di teatro, bensì di reputazione accumulata, di coerenza riconosciuta nel tempo. L’Italia che si piega troppo verso Mosca rischia di essere considerata, ancora una volta, un’anomalia mediterranea nel concerto europeo.

C’è chi dirà: meglio avere a Mosca un uomo che conosce bene quel mondo, anche nelle sue pieghe più oscure. Può darsi. Ma il confine tra conoscenza e complicità è sottile, e soprattutto fragile agli occhi degli alleati. Per questo la scelta di Beltrame racconta più di un semplice cambio di guardia diplomatica: racconta un’ambiguità di fondo nella politica estera italiana.

Vedremo se l’ambasciatore saprà incarnare la sobrietà del rappresentante di uno Stato europeo che non arretra di fronte alla guerra, o se finirà, come molti temono, per essere percepito come un segnale di indulgenza verso chi quella guerra l’ha scatenata. La diplomazia è fatta di simboli: questo, per ora, non gioca a nostro favore.

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