Il verdetto del nuovo amministratore delegato Jesper Brodin è stato drastico: le cose non vanno. “Continuiamo a crescere — ha detto il numero uno della società — ma il nostro settore sta cambiando con una rapidità e in direzioni inimmaginabili”.

I centri commerciali ai margini delle grandi città non tirano più come una volta. Convincere la gente a prendere la macchina, attraversare la metropoli, caricarsi nel bagagliaio una libreria Billy o un sofà Ektorp — nell’era dell’e-commerce e delle consegne a domicilio — è sempre più difficile. Risultato: meglio giocare d’anticipo. E l’azienda svedese ha deciso di cambiare pelle. Accettando la sfida delle vendite online, finora colpevolmente un po’ snobbata, e rivedendo la mappa geografica dei magazzini: le grandi strutture di periferia subiranno, con gradualità, un ridimensionamento.

E l’Ikea, come sta provando a fare tutto il mondo dei centri commerciali, come scrive Repubblica, andrà all’assalto dei centri cittadini con 30 aperture previste nei prossimi anni. Non saranno gigantesche cattedrali dello shopping come i punti vendita attuali ma una loro versione ” ridotta” e spesso riservata a una singola tipologia di merci.

Tra i primi progetti pilota ci sono un negozio Ikea che vende solo biancheria e materassi nel cuore di Madrid e due riservati alle cucine a Stoccolma e a Roma. La metamorfosi ( o la ristrutturazione, come dicono più pragmaticamente i sindacati) ha un costo occupazionale: 7.500 tagli tra i 160mila dipendenti. I dettagli della riorganizzazione non sono ancora noti ma l’annuncio ha già mandato in fibrillazione i 6mila lavoratori italiani del gruppo svedese, che hanno chiesto un incontro al gruppo. Poco convinti dalle rassicurazioni arrivate dai vertici («il nostro è un piano di crescita » ) e dalla promessa che le uscite saranno accompagnate in un secondo tempo da 11.500 assunzioni per rafforzare l’area digitale. La svolta Ikea, in qualche modo, era nell’aria.

Il modello dei grandi centri commerciali è in crisi in tutto il mondo. E segna il passo persino in Italia, dove nel 2018 le chiusure di questi paradisi dello shopping ( 10) sono state per la prima volta più delle aperture (9). A mettere in ginocchio il settore è l’implacabile evoluzione darwiniana della specie, in questo caso quella dei consumatori.

Gli iper hanno soffocato i negozi di vicinato ( a fine anni 80, per dire il 50% della spesa Usa si faceva nei giganteschi malls ai bordi delle città). Ora, per la legge del contrappasso, l’e- commerce — dove corre ormai il 10% degli acquisti al dettaglio mondiali — sta togliendo l’ossigeno a loro. Ikea, forte di un brand iconico, si è forse un po’ seduta sugli allori. Certa che la ricetta del suo successo — come quella delle Kotbullar — fosse destinata a durare in eterno. Nel suo mondo pragmatico e un po’ fatato fatto di brugole, viti, pezzi d’arredamento da montarsi da sé, candele profumate e sacconi per la spesa gialli e blu, i vertici hanno sottovalutato il boom del commercio online, che oggi vale solo il 5% del giro d’affari del gruppo.

E per evitare di fare la fine dell’americana Sears, di Toys R us e di molti altri concorrenti costretti a portare i libri in tribunale, Brodin ha deciso di prendere il toro per le corna e ridisegnare il profilo dell’azienda. La marcia alla conquista dei centri delle città è solo il primo passo. Si parla della possibilità di noleggiare i mobili invece che venderli, di esperimenti di realtà virtuale per aiutare i clienti a disegnarsi da sé l’arredamento di casa propria. Un salto nel futuro per evitare — complici Amazon & C. — di rimanerne tagliati fuori.