Dava ordini dal carcere il boss Salvatore Rapisarda, a capo del gruppo della clan Laudani di Paternò. Lo faceva, si legge in una nota della Procura di Catania, grazie al suo luogotenente Alessandro Giuseppe Farina che che avvaleva della collaborazione di sua moglie, Vanessa Mazzaglia, di suo suocero, Antonino Mazzaglia, e di suo nipote Emanuele Farina.

E’ quanto emerge dalle indagini dei carabinieri di Catania che hanno portato all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 19 indagati. Il provvedimento è stato emesso dal Gip su richiesta della Dda della Procura etnea. L’inchiesta, che rappresenta il proseguo dell’operazione ‘En Plein’ del maggio del 2015, e che prende il nome di ‘En Plein 2’, ha permesso di continuare a controllare il clan e a confermare il ruolo di vertice del Rapisarda, nonostante la detenzione, che, sostiene l’accusa, aveva conferito l’incarico di responsabile ad interim per il territorio di Paternò al nipote Vincenzo Marano, che gestiva le “piazze di spaccio” e la cassa comune della cosca assicurando il mantenimento degli associati detenuti. Le indagini hanno consentito anche di identificare, altresì, le “nuove leve” del gruppo mafioso.

Attraverso i colloqui con i familiari, i detenuti venivano, a loro volta, informati dei problemi associativi da risolvere, primo fra tutti quello degli stipendi agli associati, ed intervenivano dando specifiche disposizioni da far pervenire all’esterno del carcere. Uno degli strumenti di finanziamento dell’associazione mafiosa era il traffico di cocaina e marijuana, nelle “piazze di spaccio” di Paternò e di Santa Maria di Licodia. Le dichiarazioni di collaboratori di giustizia, anche recenti, riscontrate da attività di indagine tecnica e tradizionale, hanno permesso di ricostruire le attività criminali e l’organigramma dei gruppi Morabito e Rapisarda, operativi nei Comuni di Paternò, Santa Maria di Licodia e Belpasso.