La stagione del Teatro Stabile di Catania prosegue con una coproduzione di grande successo, che vede insieme l’ente teatrale etneo e la Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini. Unanime è stato infatti il consenso di pubblico e critica tributato lo scorso marzo al debutto partenopeo dello spettacolo Il giocatore, ispirato all’opera omonima e, al tempo stesso, alla vita di Fëdor Dostoevskij. È questa la peculiarità dell’originale adattamento di Vitaliano Trevisan, per la regia di Gabriele Russo. L’atteso allestimento approda dal 14 al 26 novembre alla Sala Verga. Nei ruoli principali Daniele Russo (Aleksej/Fëdor Dostoevskij), Marcello Romolo (Il generale), Camilla Semino Favro (Polina/Anna Grigor’evna).Completano il cast Paola Sambo, Alfredo Angelici, Martina Galletta, Alessio Piazza, Sebastiano Gavasso. Le scene sono di Roberto Crea, i costumi di Chiara Aversano, il disegno luci di Salvatore Palladino, i movimenti scenici di Eugenio Dura.

Il giocatore è la terza tappa della “Trilogia della libertà”, i tre spettacoli con i quali la Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini (prestigiosa e centenaria realtà teatrale, recuperata e rilanciata come istituzione culturale alla fine degli anni Ottanta dal prestigioso attore, regista, scrittore e musicista Tato Russo, e oggi gestita dai figli Roberta, Gabriele e Daniele) ha voluto affrontare il concetto di libertà e di perdita della stessa. Dopo la società distopica dominata dalla violenza del visionario Arancia Meccanica per la regia dello stesso Gabriele Russo, e l’opprimente ospedale psichiatrico di Qualcuno volò sul nido del cuculo diretto da Alessandro Gassmann, è ora la volta della Roulettenburg dominata dal gioco di Dostoevskij. Anche in questo caso, la grande letteratura si fa teatro e Il giocatore viene riletto e adattato per il teatro da Vitaliano Trevisan, che insieme al regista Gabriele Russo ha scelto di comparare e fondere la trama del romanzo al dato biografico di un Dostoevskij schiavo del gioco come il suo protagonista, con la fondamentale differenza che quest’ultimo soccomberà al vizio, mentre lo scrittore riuscirà in qualche modo ad esorcizzarlo.

L’allestimento è in costante bilico tra dramma e commedia e un cast affiatato ci trascina in una spirale fatta di azzardo, di passioni e di compulsioni, che porta dritti in quel (non)luogo dove il desiderio si trasforma in ossessione e non si limita più a governare i protagonisti, ma finisce per soggiogarli. Una rilettura metaforica e contemporanea; «il gioco non è solo l’oggetto centrale dell’opera, ma è presente – spiega Gabriele Russo – in forma di metafora o di allusione, ovunque. È nelle relazioni ossessive tra i personaggi, nei continui “rilanci” a cui le circostanze li costringono, nelle vane speranze a cui sono aggrappati e che li fanno stare sospesi; come si è sospesi quando si è in attesa che la pallina cada sul rosso o sul nero. Così si arriva alle analogie con l’oggi e con ciò che è il gioco d’azzardo nella nostra società: quando vedremo la baboulinka o il giocatore perdere tutti i loro soldi al casinò, forse per un attimo ci dimenticheremo che si tratta dei personaggi di Dostoevskij e vedremo, più genericamente una vecchina, sola, in preda al vizio del gioco o un giovane compulsivo perso in un video poker».

Una dipendenza che l’autore conosceva bene. In effetti, nel 1866, anno della pubblicazione del libro, Dostoevskij – ultraquarantenne, vedovo e reduce da una relazione conclusasi malamente con Apollinarija Suslova – era incalzato dai creditori per i suoi debiti di gioco. Per pagarli, a fronte di un anticipo aveva stipulato un assurdo contratto con l’editore Stellovskij, nel quale si impegnava a cedergli per nove anni i diritti sulle sue opere, anche future, se non avesse prodotto un nuovo romanzo entro il novembre 1866. Aveva trascurato la scadenza fino all’ottobre. L’amico Milijukov lo convinse a provarci lo stesso, suggerendogli di avvalersi di una stenografa per procedere più velocemente. Fu così che Dostoevskij assunse la giovane Anna Grigor’evna e con lei, in soli 28 giorni, terminò Il giocatore vincendo la fatale scommessa. Non solo, si innamorò di Anna, liberandosi del fantasma di Apollinarija. Dopo pochi mesi la sposò e nel giro di qualche anno, grazie al supporto della moglie, uscì dalla schiavitù della roulette. Fu l’urgenza di trasferire su carta il vortice che risucchia il suo alter ego Aleksej (la schiavitù dal gioco ma anche l’insana passione per Polina) a far incontrare allo scrittore colei che lo salverà dalla stessa spirale che condanna senza appello il “giocatore”. Un incontro avvenuto per puro caso, lo stesso Caso che governa la pallina della roulette.

Come nota Vitaliano Trevisan: «Se penso al Giocatore, penso anche alle circostanze in cui è stato scritto e viceversa. Con il regista Gabriele Russo abbiamo subito concordato sul fatto che questa correlazione fosse drammaturgicamente intrigante. L’intreccio è da commedia, addirittura da farsa, ma senza lieto fine. Il retrogusto è amaro: in fondo, ciò a cui assistiamo è il progressivo inaridimento morale di un giovane, nel cui cuore la roulette prende il posto della fanciulla di cui è innamorato. Prende il posto di tutto, a dire il vero, finché alla fine, Aleksej, cioè il nostro giocatore, si sarà “fatto di legno”. Ma nella realtà, ossia nella vita di Dostoevskij, come nella nostra rilettura, per una volta il finale è lieto. Almeno, per quanto può esserlo un matrimonio».