Ospitiamo la cronaca del concerto dei Duran Duran al Teatro antico di Taormina redatta da un quarantenne che come tanti si è scatenato al suono delle hit della band inglese: l’assessore regionale al Turismo, Barbagallo.
C’eravamo tutti, insomma. Quelle che avrebbero sposato Simon Le Bon e quelle che si limitavano a fantasticarlo guardando le foto sulle pagine del Cioè.
Quelli che andavano in giro, persino in una città di periferia – come era la Catania anni ’80 – addobbati come lo stile New Romantics imperante all’inizio degli Eighties comandava, e quelli più interessati alle armonie synth costruite dalle tastiere di Nick Rhodes.
Gli uni e le altre devoti, come se il tempo non fosse passato, al rito messo in scena dai sacerdoti di Birmingham.
Perché, chi ha già superato i quaranta, sa bene che il marchio Duran Duran va oltre l’aspetto più propriamente musicale, per sconfinare in quella terra di mezza dove religione e superstizione si tengono la mano.
Non potrebbe altrimenti spiegarsi l’atmosfera carica di pathos che domenica si respirava al Teatro Greco di Taormina sin dalle prime luci del tramonto, quando le gradinate risalenti all’antichità e le poltrone delle prime file si andavano gradatamente riempiendo di un esercito di quarantenni e cinquantenni, con la donne a fare la parte del leone.
Quelle donne che, non appena i quattro componenti del gruppo, più le due coriste e i due turnisti, hanno cominciato ad intravedersi tra la nuvola creata dalle macchine del fumo, accompagnate da boati che simulavano le esplosione dell’Etna, come sempre maestoso e silenzioso elemento insostituibile del fondale del Teatro, hanno preso d’assalto il palco riversandosi a ondate sulle prime file; per poi esplodere in urla di gioia, pianti di commozione, come forse nemmeno le loro figlie avrebbero fatto ad un concerto di Justin Bieber, quando Simon John Charles Le Bon, con i suoi pantaloni bianchi attillati, il giubbotto di pelle indossato sopra una maglietta a maniche corte, ha disceso i tre gradini per offrirsi al suo pubblico.
“Più affascinante oggi che trent’anni fa”, ha sentenziato la signora che assisteva al concerto di fianco a noi, dopo aver conquistato la pole position.
Il resto fa parte della storia della musica.
Un po’ snobbati dai musicofili negli anni dello splendore, per l’eccesso di offerta musicale propria di quel decennio, che indirizziva i più ad allontanarsi dall’aurea glam dei Duran e dei Ballet, considerandoli musicalmente di serie B rispetto ai Cure, agli Smiths, agli U2, ai Rem degli esordi di Murmur e Lifes rich pageant – per non addentrarsi nel terreno dei collezionisti del vinile, quello praticato dai Sick Rose, dagli Jo Jo Zed and the Falcons, oppure dagli Aztec Camera o dagli Essence -, oggi John Taylor e soci ci sono apparsi per quello che realmente sono: un gruppo di ottimi musicisti che hanno offerto due ore di spettacolo e una manciata di pezzi che, in uno, appartengono alla storia della musica e a quella di ciascuno di noi. Che è più importante.
Non si spiegherebbe perché, allora, arrivati al bis, con Simon che invitava i suoi compagni di palco a far stare in silenzio i loro strumenti, dai diecimila del teatro si sia alzato, in modo compatto e intenso, un “Don’t save a prayer for me now, save it till the morning after” che tutti i presenti aspettavano di liberare da trent’anni. Compreso chi vi scrive.
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