Un uomo entra in un supermercato all’interno di un grande centro commerciale di una città francese. Ruba una lattina di birra, la apre, forse vuole solo sorseggiarla prima di passare alla cassa, ma tanto basta per essere bloccato da quattro addetti alla sicurezza che lo trascinano nel magazzino e lo picchiano fino ad ucciderlo. Questo scarno fatto di cronaca recente è ripercorso da Laurent Mauvignier, pluripremiato autore francese, in un lungo racconto: una sola frase che ricostruisce la mezz’ora in cui è insensatamente raccolta la tragica fine di un uomo. Messo in scena nel 2012 al Teatro della Comédie-Française, “Ce que j’appelle oubli”(titolo originale dell’edizione Le Minuit, 2011) viene per la prima volta rappresentato anche in Italia in una produzione del Teatro Stabile di Catania nell’ambito della rassegna “Altrove”, dedicata alla nuova drammaturgia e allestita nei luoghi storici della città. Il debutto è previsto il 19 giugno nella monumentale Chiesa di San Nicolò l’Arena, con repliche fino all’1 luglio (inizio spettacoli ore 21,15).
L’allestimento, destinato ad un’importante tournée nazionale, è affidato alla regia di un maestro del teatro e del cinema come Roberto Andò. A dare voce al testo un attore di rara sensibilità e potenza come Vincenzo Pirrotta.
Il testo di Mauvignier è già un récit, come sottolinea Roberto Andò: “Due anni fa ho letto il testo di Laurent Mauvignier e ho pensato subito che era scritto in una lingua vocata al teatro. Storia di un oblio è un canto a più voci, ma è concepito per una sola voce. Un canto che Vincenzo Pirrotta intona a nome di ognuno di noi, conducendoci in quella zona dolorosa e opaca in cui ogni essere umano è destinato a sparire e a essere dimenticato. La scrittura di Mauvigner circoscrive luoghi indicibili dell’esperienza, quei luoghi della memoria o della coscienza che resistono alle parole. A questa resistenza Mauvignier contrappone l’esattezza della parola, il suo potere evocativo e catartico. Mi è sembrato che Storia di un oblio fosse un testo che oggi potesse trovare un senso speciale presso il pubblico teatrale. Dopotutto il teatro è da sempre racconto di una esperienza, anche della più oscura e irraccontabile, come appunto è oscura e irraccontabile l’incongrua uccisione di un uomo da parte di quattro vigilanti e il tentativo di restituirle un senso da parte di chi resta. La parola di Mauvignier sfida l’indulgenza dell’autocoscienza e la retorica sentimentalistica della cronaca a buon mercato, riuscendo a dar voce alla sofferenza e alla solitudine che segna la vita delle persone.”
Il lungo monologo (una cinquantina di pagine) scritto in un’unica frase, senza un vero inizio, senza una vera fine, senza punteggiatura, è reso con una prosa perfetta – la traduzione è di Yasmina Melaouah (per Feltrinelli) – che in un crescendo emozionante risveglia in noi sentimenti di pietà e indignazione. Teso quasi allo spasimo nel resoconto minuzioso di una morte assurda, il flusso di parole raduna impercettibilmente tutti i temi cari a Mauvignier. E torna così il suo sguardo purissimo su un universo di “umili” che la scrittura rigorosissima accoglie senza una briciola di retorica, senza un’ombra di furbizia.
Raro, oggi, nel trionfo dei format narrativi nei quali la realtà diventa un reality, uno stile così impeccabilmente morale, una prosa così pudica e vera. Un testo e uno spettacolo che pongono un grande interrogativo: quanto vale una vita? Come rapportiamo questo valore con quello degli oggetti inanimati? Uccidereste mai una persona perché ha tentato di rubarvi, ad esempio, la macchina? Eppure succede che un piccolo gesto compiuto con leggerezza in un attimo fa precipitare la situazione verso il baratro, come in questa pièce che si ispira ad un fatto vero. Nel dicembre del 2009 Miguel, un ragazzo di 25 anni, viene ammazzato di botte dagli addetti alla sicurezza di un supermercato di Lione. Il crimine che l’ha portato alla morte è il furto di una lattina di birra, condotta considerata troppo lesiva dalle guardie per non intervenire, per non dargli una lezione; e diventa difficile non farne un capro espiatorio di tutti coloro che rubano al supermercato. Il gesto di aprirsi la lattina, e sorseggiarla tra gli scaffali del supermercato prima di averla pagata, può essere stata la scintilla che ha fatto scattare la follia nei vigilanti che, investiti di una insulsa autorità, hanno agito senza proporzione o cognizione di causa, commettendo un fatto irreparabile.
Forse il senso del dovere portato all’eccesso, forse un pregiudizio razziale (il ragazzo era di colore), o addirittura una semplice questione di principio; fatto sta che il processo mentale che ha portato quegli uomini ad agire in quel modo è stato viziato dalla mancanza di umanità e rispetto per la persona. È stata tolta la vita ad un uomo per il tentato furto di una lattina, un oggetto dal costo talmente esiguo che a stento riesce a coprire la spesa dell’alluminio necessario per costruirla. Purtroppo la punizione esemplare ha dimostrato solamente il distacco e l’alienazione che porta quattro persone in divisa ad interpretare il loro dovere di controllo come una questione di vita o di morte. La sua. Cercare di spiegare a posteriori certi comportamenti umani diviene quasi impossibile, ma questi ci danno la possibilità di aprire gli occhi verso una cruda realtà basata sempre più sul valore delle cose e non più su quello delle persone.
Nato a Tours nel 1967, Laurent Mauvignier è uno degli scrittori francesi più apprezzati dal pubblico e dalla critica. Ottenuta la laurea in arti plastiche presso la Scuola delle Belle Arti nel 1991, nello stesso anno esordisce con il primo romanzo dei suoi sette romanzi, tra i quali “Apprendre à finir” (Les Éditions de Minuit, 2000; Prix Wepler e Prix Inter 2001) e “Dans la foule” (Les Éditions de Minuit, 2006; Prix Fnac). Con Feltrinelli ha pubblicato “Degli uomini” (2010), “Storia di un oblio” (2012), “Intorno al mondo” (2016; Premio Bottari Lattes 2017) e “Continuare” (2018).
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