Una ferita lunga una vita appartiene allo sguardo, ai gesti alle parole della scrittrice Maria Vittoria Pichi. La sua storia, preannunciata dalla giornalista Rosa di Stefano nel salotto letterario del Palazzo del Poeta, suscita interesse, cattura l’attenzione di un pubblico numeroso. 

Non è facile far affiorare il dolore, la sofferenza e la voce della scrittrice viene tradita dall’emozione, e mentre lei cerca la parola chiara, il suono fluido e limpido il pubblico applaude.

È solo un momento, utile però ad aprire un varco di empatia ed a ridurre le distanze tra lei ed un noi sensibile. 

Poi i ricordi cominciano ad emergere, a trovare il filo della trama.
È il 28 dicembre 1981, la vita di una donna, di una farmacista, di una militante di sinistra che ama la politica, viene trasformata in quella di una terrorista. Lei ed il suo compagno saranno arrestati a Padova per il sequestro del generale Dozier, comandante delle forze Nato nel Sud Europa.

Il capo di accusa, Maria Vittoria non lo conosce, nessuno le dà spiegazioni e le domande si affollano, si aggrovigliano, si confondono mentre viene condotta alla caserma dei carabinieri. È un giro a vuoto della ragione, un assurdo kafkiano. Nella nuova veste di terrorista scoprirà il perché del suo arresto ascoltando il telegiornale dal televisore di una detenuta, la cui cella di isolamento è vicino alla sua.

La sua nuova maschera, lei non la conosce, non può recitarla, ma è un ruolo che le è stato imputato e che la fa sprofondare nell’assurdo di cento giorni vissuti nelle carceri della Giudecca. Soltanto il tempo le restituirà la lucidità e la distanza per raccontare.

“Ho scritto, per necessità, per non avere dentro quella specie di scatola in cui avevo chiuso i ricordi, dovevo tirarli fuori. Dopo che l’ho fatto non pensavo di pubblicare il libro o di farlo leggere, l’ho scritto facendo come un’azione di spugna, cercando di concentrarmi, spremevo e tutto quello che ricordavo lo scrivevo. Poi mi sono resa conto di avere in mano un racconto che nessuno conosceva, neanche all’interno della mia famiglia ed allora ho pensato di pubblicarlo”

“La vicenda processuale si concluderà otto anni dopo, non ci saranno scuse, non ci saranno risarcimenti solo ferite insanabili” sottolinea la giornalista Rosa di Stefano. 

“Io ho cercato di combattere, ma ho pagato, me l’hanno fatta pagare per mille aspetti anche nella vita quotidiana di lavoro, perché all’inizio come farmacista la gente non si fidava, la casa me l’hanno costruita male, perché tanto non ci dovevo vivere, io dovevo finire in galera”

Vittoria Maria Pichi, però, troverà la forza per reagire e non soccombere nel silenzio, nella depressione, nel vittimismo. 

“Il processo di liberazione inizia con lo scrivere, con il narrare per buttare fuori le esperienze traumatiche facendo riaffiorare alla coscienza gli eventi responsabili. La narrazione è al presente perché tutto è ancora attuale. Un percorso catartico a cui si aggiunge” spiega lo psichiatra Vittorio Guarneri “il desiderio di dare una spiegazione chiara a tutti, perché i dubbi in questi casi rimangono. La stampa nella fase delle indagini è prolifica di articoli, così come durante il processo, mentre nella fase della sentenza e dell’assoluzione si limita ad un trafiletto. Inoltre non tutti leggono, approfondiscono per cui può rimanere nella mente un sospetto di qualche tipo di coinvolgimento diretto od indiretto, nonostante l’assoluzione. Ad una persona che affronta una vicenda giudiziaria rimane un marchio indelebile ed un trauma profondo. Il trauma vissuto non è elaborabile, la giustizia che deve essere dalla parte dei cittadini in questi casi si rivolta contro i cittadini stessi, è come se i genitori tradissero un figlio. Lo stato ha tradito, doveva proteggere e non ha protetto”.

Se dovessi dire una parola oggi su questa tua storia a distanza di quarant’anni che cosa diresti, chiede Rosa Di Stefano

“quado si legge di un arresto, bisogna chiedersi qual è la verità, non accettarla per come viene diffusa, perché a volte la verità è altro. E vorrei aggiungere che il carcere fa paura a tutti, il carcere non deve essere quello che è, questo ambiente in cui uno viene chiuso, buttato e fuori tutti siamo contenti, anzi buttiamo le chiavi. Il carcere deve essere un posto dove l’umanità si manifesta anche dentro, perché ci si può finire senza avere fatto nulla”. 

La testimonianza di Maria Vittoria Pichi risuona attraverso la voce dell’attrice Liliana Sinagra che con gentilezza e garbo ha condiviso alcune pagine del romanzo “Come una lama” 

Immedesimarsi nella protagonista del romanzo significa riflettere sulla giustizia, sugli errori giudiziari, sull’attendibilità delle notizie dei giornali che ti processano senza un processo, sul carcere disumano, sulla distruzione dell’immagine di una persona a cui resta un marchio per una casualità imprevista.

Il coraggio, la determinazione, la forza di Maria Vittoria Pichi sono una testimonianza preziosa per non perdere il desiderio di umanità. 

articolo scritto da Marisa Di Simone

Luogo: Palazzo del Poeta, Via Seminario Italo Albanese , 20, PALERMO, PALERMO, SICILIA

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