Già nei miei precedenti libri non ho mancato l’occasione per scrivere in proposito. Ora se passo a una trattazione con un titolo che traccia i tratti specifici di vicende che hanno interessato un secolo e si sono posti alla nostra attenzione per la loro drammaticità e per i lutti e danni provocati, è perché vi ho colto un passaggio epocale che si sta proiettando in maniera inquietante nel XXI secolo. Non potrei di certo con lo stesso animo descrivere i tempi e le vicende umane di altri eventi traumatici come la Prima guerra mondiale, perché quella non l’ho vissuta come questa, sia pure con l’età di un ragazzo. Il primo impatto con l’idea della guerra che bussava alle porte l’ho vissuto quando con i miei genitori abitavo a Pistoia e nel 1941, i bombardieri inglesi avevano incominciato a martellare alcune città italiane ed io sentivo gli effetti delle bombe che cadevano e le cannonate della contraerea nelle aree vicine. Mio padre, allora, era militare di carriera.  Aveva combattuto nella Prima guerra mondiale ed era stato ferito. Aveva vissuto il dramma del reduce e le incomprensioni della piazza nei confronti di chi per anni, riuscendo a salvare la pelle, si era trovato intrappolato in una trincea alla mercé dei cecchini e a dover respingere le sortite del nemico e a partecipare a quelle del proprio reparto per la conquista di un lembo di terra. Poi vennero il fascismo e poi ancora un’altra guerra che, a differenza della prima, non era circoscritta in un’aerea ben definita, ma si dilagava ovunque e, dove gli eserciti non guerreggiavano, ci pensava l’aviazione a provocare vittime civili e immani distruzioni. I miei genitori pensarono bene che sarebbe stato meglio, soprattutto per me, trasferirci in una località che ritenevano meno esposta ai rischi della guerra.  Fu così che con mia madre ritornammo al nostro paese natio, Campobasso, una località fuori dalle grandi linee di comunicazione e di certo poco interessante dal punto di vista strategico sia per i bombardieri che negli anni successivi solcavano i cieli ed erano motivi di curiosità ma non certo di

preoccupazione, sia per gli eserciti in movimento. Mio padre, invece, fu assegnato, dopo la campagna d’Albania, a Spoleto e lì visse i momenti più tragici dell’armistizio e della rabbiosa reazione dei tedeschi che si sentirono traditi dall’alleato italiano. Ma anche Campobasso, alla fine, non fu immune di un interesse militare tanto che mia madre pensò bene di mandarmi dalle zie paterne che vivevano in un paesino a quaranta chilometri dal capoluogo: Morrone nel Sannio. Lo fece anche perché mancavano le scorte alimentari e s’incominciava a fare la fame. Lei, invece, non poteva muoversi dovendo accudire alla madre semi paralizzata a letto e intrasportabile.  Ma la guerra sembrava inseguirmi. Gli alleati  sbarcarono a Termoli a una quarantina di chilometri  da dove mi trovavo e considerarono Morrone del  Sannio un paese da sottrarre ai tedeschi per la sua  caratteristica di trovarsi abbarbicato sulla cima di una  montagna e da dove era possibile avere un osservatorio naturale d’indubbio valore strategico per la loro successiva avanzata che avrebbe chiuso in una sacca le truppe tedesche che, non avendo altri sbocchi,  erano costrette ad arretrare verso Campobasso e da dove, invece, sull’altro versante avanzavano gli alleati provenienti da Napoli. Per mia fortuna e quella dei morronesi avemmo a che fare con le truppe regolari tedesche e non da reparti di SS o elementi della Gestapo. Erano gentili e socievoli. Non solo. Con l’avvicinarsi delle truppe americane pensarono bene di lasciare il paese di notte alla chetichella. Da una parte fu un bene ma, dall’altra, ingenerò una malcelata preoccupazione per i paesani pensando che gli alleati potevano non sapere di questa evacuazione spontanea e incominciare con un fuoco preventivo prima di entrare in paese. Si ritenne, quindi, importante fare in modo d’avvisarli. Ma come? Io con altri bambini ascoltavo questi discorsi che preoccupavano gli adulti e che per noi erano motivo d’eccitazione. Io con altri, sfuggendo alla sorveglianza dei nostri parenti, ci portammo verso le ultime case del paese da dove si poteva osservare il tratto che degradando verso il piano, con scarsi alberi e con bassi cespugli giungevano sino al cimitero a ridosso del quale vi era un bosco che, a sua volta, lambiva la strada comunale che si allacciava, dopo quattro o cinque chilometri, allo stradone che collegava Termoli a Campobasso e alla vicina stazione ferroviaria di Ripabottoni. Ricordo che parlavamo tra di noi e cercavamo di scrutare con attenzione lo spazio antistante per riuscire a individuare qualche segnale che ci permettesse di capire dove potevano trovarsi i soldati alleati. Si sa che i ragazzi sono spesso impulsivi e non hanno ancora la percezione esatta del pericolo. Alla fine tra tanto parlottare e scrutare e persino individuare movimenti strani che altri poi smentivano categoricamente indicandone altri io mi decisi di rompere gli indugi e di corsa mi diressi a valle tra i campi incolti e qualche avvallamento che riuscii miracolosamente ad evitare finché mi ritrovai placcato e a terra con un soldato americano mentre sulla nostra testa sibilavano i proiettili di una mitragliatrice. Ciò permise, se non altro, agli americani d’individuare il nido di mitragliatrici della retroguardia tedesca e d’apprendere che in paese non vi erano tedeschi. Il resto fu trionfale. Il lieto fine, come si sa, è una liberazione dalle ansie patite in precedenza e mi permise di trasformare i rimbrotti delle zie impaurite dall’apprendere la mia bravata in un moto di gioia collettiva. Così offrii il mio contributo alla causa della guerra ma non mi liberai del tutto dai suoi fantasmi. Ricordo che fui portato a Campobasso dagli americani alcuni giorni dopo che la conquistarono su una loro jeep per andare da mia madre e mia nonna e ne approfittai per recare loro alcuni generi alimentari della campagna e dei generosi regali a base di cioccolato, latte in polvere, zucchero, carne in scatola e caffè avuti dopo che gli statunitensi appresero che una delle mie zie era una cittadina americana. Fu proprio un pomeriggio, mentre passeggiavo con mia madre nei pressi della villa cittadina, che fui preso da un attacco di panico. La causa scatenante fu il rullio di un tamburo della fanfara militare scozzese e che scambiai, probabilmente, con colpi di cannone. Questa paura mi perseguitò per anni e si riaffacciava tutte le volte che sentivo un forte e improvviso rumore. Da questa mia esperienza, ero un ragazzo che aveva da poco compiuto dieci anni, posso oggi capire cosa significa trovarsi nel bel mezzo di una battaglia, essere circondati da morti e feriti e soffrire la fame. Forse per questo motivo quelli della mia generazione sono stati più condiscendenti con i propri figli e aver loro permesso di vivere un’esistenza meno rigorosa anche se alla fine questa nostra indulgenza non ha giovato alla loro formazione. Le guerre, quindi, portano dei cambiamenti comportamentali sia nell’immediato rendendoci più maturi, sia perché fanno sentire i loro effetti a lungo e tendono a riverberarsi nelle generazioni successive e nei modi più imprevedibili. Forse non è stato solo un caso se le tante esitazioni mostrate dai governanti degli altri stati europei, nei confronti della Germania hitleriana, siano stati determinati proprio dal timore che si potesse scatenare un altro conflitto bellico con conseguenze probabilmente peggiori di quelle lasciate dal primo. Un atteggiamento da saggi ma anche da persone che, pur non avendo preso coscienza di quanto fosse drammatico lo scenario di una guerra   futura, prevedeva ragionevolmente l’uso di armi sempre più sofisticate e distruttive come lo fu la bomba atomica, e ne hanno saputo qualcosa gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki in Giappone. Costoro avvertirono il forte desiderio delle popolazioni, che sulla loro pelle avevano vissuto momenti tragici, di non volere che i grandi della terra parlassero ancora di guerre. Del resto, l’occidente europeo non sembrava tanto preoccupato delle dittature di destra ma, semmai, lo era, di certo, per quelle della sinistra, a partire dalla Russia. Il resto è storia di oggi. (Riccardo Alfonso dal libro “Io figlio della lupa”)

Luogo: Via delle cave di Pietralata, 14, ROMA, ROMA, LAZIO

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