Marisa Leo, 39 anni di Salemi (TP), uccisa nei giorni scorsi dal suo ex compagno che dopo l’omicidio si toglie la vita. La donna è stata attirata in una trappola da Angelo Reina, padre di sua figlia, ed è stata uccisa a colpi di fucile. Ne sono convinti gli investigatori della Mobile di Trapani che indagano sulla tragedia familiare. Ci troviamo davanti a storie terribili che toccano e intaccano l’anima nel profondo. Marisa Leo era una mamma, per la sua bambina, di 4 anni, pronta un’équipe di psicologi per seguirla e sostenerla in un percorso non certo facile, lo ha assicurato il sindaco di Salemi.

Le esperte della cooperativa sociale Etnos di Caltanissetta, presieduta da Fabio Ruvolo, Maria Giusi Cannio (psicologa e psicoterapeuta) e Anna Bonelli (educatrice) in merito all’omicidio – suicidio e sulla prevenzione al disagio esistenziale come strumento rigenerato dichiarano: “All’interno della cooperativa Etnos da anni, psicologi ed educatori, si attivano per evitare ai più fragili di ritrovarsi al bivio della sopravvivenza o della morte. Ogni giorno muore una donna per mano di un uomo, ogni giorno sempre più giovani si rifugiano nelle sostanze stupefacenti per non sentire la fatica del presente, ogni giorno qualcuno ‘aggredisce’ chi non sembra comprendere le proprie necessità e i propri bisogni egoistici – dichiara Maria Giusi Cannio – . La mia personale esperienza tra gli adolescenti, come psicologa e psicoterapeuta, mi ha permesso di ascoltare ragazzi e ragazze incapaci di instaurare relazioni sane e appaganti. I nostri adolescenti lamentano di non sentirsi capiti dagli adulti e accusano i coetanei di non avere capacità empatiche. Tra le strategie, per poter fronteggiare ciò che vivono, scelgono il lamento, l’evitamento di far valere le proprie necessità e l’aggressione verbale o fisica contro qualcuno o qualcosa”. “Riportando quanto accade tra i giovani nei nostri contesti comunitari gestiti da Etnos – affermano Cannio e Anna Bonelli educatrice e esperta in tecniche di counseling – osservando il fare, il dire e il sentire delle donne ospiti nelle case rifugio, notano le loro grandi difficoltà a riconoscersi come persone assertive e capaci di parlare di sé senza attribuirsi colpe o accusare gli altri. Una donna vittima di violenza si descrive in una posizione ‘non sono ok’ e non riesce ad immaginare un futuro fatto di dinamiche relazionali sane e piene di reciprocità. Le prime e negative esperienze accuditive, un’educazione rigida o disorganizzata, compagnie in cui il leader amava primeggiare sempre e comunque, padri assenti, mamme apatiche… spiegherebbero il perché la donna non riesce a esprimere le proprie emozioni, non le sa riconoscere, produce letture di pensiero e segue condizionamenti disfunzionali con il partner e i familiari” L’educatrice nel ricostruire nuovi schemi comportamentali e mentali punta sull’arricchimento del linguaggio, offre spinte che possano cambiare lo stato emotivo della donna affinché quest’ultima possa poter sperimentare il piacere di essere attrice attiva della propria vita senza la necessità di ricorrere alle carezze negative che le vengono offerte da coloro che la userebbero come strumento di conferma identitaria. “Una delle donne ospiti, Maria (nome di fantasia), madre di 3 figli, vittima di violenza da parte del marito, ci spiega il perché del suo tentato suicidio – raccontano le esperte della Etnos – . La donna è figlia di due genitori anziani che non hanno saputo insegnarle quelle competenze emotive essenziali che aprono le porte alla crescita autonoma. A 18 anni Maria conosce l’uomo che sarà suo marito e padre dei figli. Lui, uomo giovane e speranzoso di potersi svincolare dalla madre oppressiva e invadente, si allontana dalla sua terra e conosce Maria che accoglie ogni esigenza di lui, lo segue senza condizioni, si annulla pur di vederlo sereno ma lui, uomo incapace di sapere il perché delle sue scelte, inizia a sentirsi prima inadeguato, poi triste, poi aggressivo fino a scoprire che l’alcol annullava ogni pensiero. Con il tempo l’alcol non gli fa più l’effetto iniziale e ogni momento della sua vita diventa esasperante… fino a trovare un nuovo bersaglio, Maria. Dopo anni di umiliazioni subite per non ‘smantellare’ la famiglia, lui decide di accusarla che con il suo fare accondiscendente ha distrutto il loro amore e la relazione con i figli, a questo punto Maria tenta il suicidio. Lei è una delle tante persone che per molti anni ha vissuto assecondando il bisogno d’amore e di riconoscimento altrui, che sceglie un uomo assetato d’amore e attenzioni e che le offre un ‘posto nel mondo’ – continuano Cannio e Bonelli -. In questo caso la donna, con il suicidio ha scelto la fuga dal dolore per essere stata abbandonata (dal maltrattante)”. “Nell’ultimo femminicidio in ordine di tempo, l’uomo maltrattante, dopo aver ucciso l’ex moglie si toglie la vita. Ma perché mai? Come mai si è suicidato dopo aver messo fine alla vita della sua peggior ossessione? Il suicidio, senza volere banalizzare – sottolinea Maria Giusi Cannio – nella mia esperienza clinica, si presenta sempre più spesso come l’azione che permette velocemente di non fare i conti con il proprio sé fallimentare e la propria incapacità di verbalizzare il proprio sentire (alessitimia). Al travaglio psichico, molti dicono che sia meglio il nulla e lo scelgono come via di fuga. A questo punto sia io, psicologa che la dott.ssa Bonelli, educatrice, sosteniamo che sarebbe il momento di dare spazio, visibilità e peso ad un’educazione alle relazioni sane e reciproche. Un’educazione alle emozioni, al superamento degli stereotipi e dei pregiudizi, all’apertura all’altro e all’alterità. Un’educazione che non si limiti a bambini ed adolescenti, ma che coinvolga fattivamente, adulti e genitori, che possa aprire nuove strade alla comprensione e all’accoglienza dell’altro”.

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