Nativi digitali sulla carta, ma con competenze ancora da costruire. Una ricerca fotografa una generazione che guarda all’intelligenza artificiale con realismo: consapevole delle opportunità, ma cosciente dei propri limiti. E che chiede alle aziende fatti concreti, non solo belle parole.

Cresciuti con lo smartphone in mano, abituati a destreggiarsi tra app e social network, eppure sorprendentemente consapevoli dei propri limiti. È questo il ritratto che emerge dall’Osservatorio ASUS Business, condotto da Research Dogma su un campione di laureati e laureandi under 30. Un’istantanea che smentisce alcuni stereotipi sui cosiddetti nativi digitali e ne rivela altri aspetti, meno scontati.

Il gap tra percezione e realtà

I numeri raccontano un paradosso. Da un lato, il 76% dei giovani intervistati si sente pronto e competente per affrontare il mondo del lavoro. Dall’altro, più della metà sta incontrando difficoltà concrete nel trovare un’occupazione. E quando si scava nelle competenze digitali, emergono crepe evidenti.

Solo il 37% dichiara di sentirsi molto preparato nell’uso del computer e dei suoi programmi. Una percentuale che, per una generazione cresciuta nell’era digitale, suona quasi come un campanello d’allarme. Ma è quando si parla di intelligenza artificiale che il dato diventa ancora più netto: appena il 24% si ritiene davvero competente sul tema.

Un gap che si inserisce in un contesto lavorativo già complesso. Come evidenzia il Future of Jobs del World Economic Forum, diverse posizioni entry-level rischiano di essere assorbite da strumenti di intelligenza artificiale, rendendo ancora più difficile per i giovani trovare quel primo impiego tanto agognato.

Uno sguardo lucido sul futuro

Eppure, quello che colpisce di questa generazione non sono tanto le lacune, quanto la lucidità con cui le riconosce. E soprattutto, la capacità di guardare alla tecnologia senza lasciarsi travolgere né dall’entusiasmo acritico né dal pessimismo apocalittico.

Quasi tutti gli intervistati – il 95% – sanno che l’intelligenza artificiale avrà un impatto importante sul loro futuro lavorativo. Il 76% è convinto che saper gestire l’AI diventerà una competenza fondamentale in qualsiasi professione. Ma c’è un dettaglio che fa la differenza: il 40% pensa che questo impatto, per quanto rilevante, sarà meno radicale di quanto raccontato dai media.

Non è ingenuità, è realismo. Questi giovani non si fanno ammaliare da scenari fantascientifici né terrorizzare da previsioni catastrofiche. Guardano all’AI per quello che può essere: uno strumento. Certo, ci sono timori – la scomparsa di alcuni ruoli, una possibile perdita di autonomia – ma prevale una visione pragmatica. L’intelligenza artificiale può rendere il lavoro più produttivo, più creativo, può liberare tempo dalle attività ripetitive. Può, insomma, essere un’alleata.

Quello che conta davvero

E qui si arriva al cuore della questione. Perché questa ricerca sfata un altro luogo comune: quello secondo cui i giovani cercherebbero solo aziende con grandi principi etici e dichiarazioni di valori. La realtà è diversa, più concreta.

Conta la remunerazione, certo – è al primo posto con il 53% delle preferenze. Ma subito dopo c’è la flessibilità dei tempi di lavoro, indicata dal 46% degli intervistati. E non per caso: tra i principali vantaggi che i giovani vedono nell’AI c’è proprio la possibilità di ottimizzare il tempo, di liberare spazio per altro.

Emerge quello che la ricerca definisce un “pragmatismo valoriale”. Tradotto: contano i comportamenti concreti delle aziende verso le persone, più delle belle carte dei valori incorniciate in reception. Conta che i giovani vengano pagati il giusto, che ci sia attenzione reale alle loro esigenze. Le grandi dichiarazioni di principio? Servono a poco, se poi restano sulla carta.

Una generazione che chiede coerenza

Il messaggio è chiaro. Questa generazione è pronta ad abbracciare l’intelligenza artificiale, ne riconosce il potenziale, ma sa anche di non essere ancora del tutto preparata. E invece di nascondere questa consapevolezza, la mette sul tavolo. Chiede strumenti per colmare il gap formativo. E soprattutto, chiede alle aziende non grandi narrazioni, ma fatti: stipendi adeguati, flessibilità vera, investimento concreto sulle persone.