E’ il 1969, Gaber ha già abbandonato la strada dei ‘Non arrossire’, ‘La ballata del Cerutti’, ‘Porta Romana’, ‘Il Riccardo’, ‘Barbera e champagne’, ‘Ciao ti dirò’ e tanti altri, così come la compagnia artistica di Celentano, Jannacci, Ghigo, Tenco e l’interesse di Nanni Ricordi e dell’omonima editrice milanese.

La sua malattia si chiama teatro, ma non il teatro per proporre un semplice ‘recital’ di canzoni. Non gli interessa interpretare in bell’ordine su indicazione dei signori del marketing i suoi successi e tentare di infilare qualche inedito sperando che faccia battere il piedino. L’occasione gliela offre Mina: una tournée nei teatri di molte città italiane. Un vero successo, di Mina.
Eppure quel pubblico che guarda e ascolta, quel pubblico che partecipa, a volte urla, altre pretende, quello è il pubblico che lo sceglie, che paga il biglietto per sentirlo, che accetta un orario di inzio e anche, con più fatica, una fine. Un pubblico che lo terrorizza, lui così schivo decisamente timido. Lui che all’inizio di ogni spettacolo vorrebbe essere ovunque ma non lì, non in quel momento. E’ un pubblico che si può contare a colpo d’occhio: cinquecento, forse ottocento, il teatro ha una capienza di mille, allora forse ci siamo vicini. Soprattutto è un pubblico vivo non una ‘audience’, sono i ragazzi del movimento, quelli delle occupazioni, quelli che Dario Fo e Franca Rame intrattenevano nei pomeriggi dei giorni di festa nelle sedi occupate, i compagni del 18 politico, quelli che il peggior nemico era il miglior amico passato, senza l’opportuna analisi critica, ad Avanguardia operaia o a Lotta continua. Gaber sa di aver rinunciato al successo elegante e rispettabile scegliendo una difficile militanza in un ruolo in cui tocca dare sempre la risposta attesa, e solo quella.
Ma se da un lato alcune organizzazioni intraprendono un processo irreversibile di radicalizzazione, da parte di Gaber inizia un percorso, forse inconsapevole, di allontanemanto da quel pubblico da sempre suo riferimento.
‘Anche per oggi non si vola’, siamo alla stagione 1974-75, è il primo spettacolo che insinua il bisogno di cambiamento del duo Gaber/Luporini. In particolare in Luporini, autore di quasi tutti i testi del Teatro Cnazone di Gaber, affiora in modo significativo il suo lato situazionista.
Ancora più evidente è lo spettacolo successivo ‘Libertà obbligatoria’ che pone al centro il rapporto tra individuo e sistema. Gaber dichiara “Da un lato esistono persone che accettano passivamente tutto quanto viene loro propinato dal sistema. Dall’altro esistono quelli che credono di porsi in modo antagonistico al sistema, ma il loro antagonismo è fasullo e nel giro di breve tempo viene recuperato. Vedi la moda dei blue-jeans che ormai alimentano vere e proprie industrie. Entrambi i tipi non sfuggono alla massificazione”.

Il crak con il suo pubblico è definitivamente sancito dallo spettacolo ‘Polli di allevamento’. Dal titolo è evidente la svolta, la rottura è appena rimandata. Il pezzo che chiude lo spettacolo, ‘Quando è moda è moda’, chiude anche la lunga co-militanza. Giorgio Gaber diventa un piccolo riferimento di quella borghesia reduce, di quei ragazzotti del ’68 ben pasciuti da aver trovato porte aperte e opportunità nel partito craxiano. E’ il suo terzo inzio, ma il successo dei primi due periodi non si ripropone.
‘Io se fossi Dio’ è l’ultimo guizzo creativo di una carriera straordinaria sempre ai confini del fallimento. Era stato lui a tradire oppure il suo pubblico aveva smesso di amarlo? Difficile dirlo.
Mi piace chiudere con un pensiero del Signor G, catturato e pubblicato da Andrea Scanzi: “Capii che potevo vivere così e che quella era la mia strada. Vivevo meglio. […] All’inizio ebbi un po’ di paura, perché dopo i ‘pienoni’ con Mina nessuno veniva più a vedermi. Però, nonostante lo choc, dentro di me sentivo che era giusto farlo”. Era il 1970.