La nuova operazione antimafia a Palermo in cui si parla di decapitazione dei vertici del mandamento mafioso di corso Calatafimi, fa riemergere le solite persone che già nel recente passato avevano spadroneggiato.

In manette, nel blitz scattato all’alba di ieri, Rosario Lo Nardo, 41 anni, Paolo Suleman, 47, e Giuseppe Marano, di 71, accusati a vario titolo di associazione mafiosa ed estorsioni aggravate dal metodo mafioso. Per i primi due è arrivata l’ordinanza di custodia in carcere, il terzo invece è finito ai domiciliari perché ultrasettantenne.

Le indagini condotte dal 2021 al 2023

L’operazione è stata condotta dai carabinieri del Comando provinciale, che hanno eseguito un provvedimento emesso dal Gip Lirio Conti su richiesta della Dda, guidata dal procuratore Maurizio de Lucia. Il provvedimento nasce da indagini che sono state condotte dal 2021 al 2023 e che si erano concentrate proprio sulla famiglia mafiosa di corso Calatafimi, clan che fa parte, nell’organigramma di Cosa nostra, del mandamento di Pagliarelli.

Dall’inchiesta è emerso come il sodalizio criminale avesse il totale controllo della zona di riferimento. I loro nomi e i loro metodi soprattutto, riuscivano ad assoggettare imprenditori e commercianti della zona, piccoli o grandi che fossero nel loro giro d’affari.

L’ascesa dei tre dopo operazione antimafia a gennaio 2023

Lo Nardo, Suleman e Marano, secondo gli inquirenti, dalle seconde linee sono avanzati al vertice dopo l’operazione antimafia del gennaio dell’anno scorso, denominata Roccaforte e che aveva portato a 7 arresti. I capi di allora furono proprio rimpiazzati dalla triade emergente che comunque aveva già avuto in passato ruoli di un certo spessore. In particolare spicca la figura di Suleman, amico del boss Gianni Nicchi e già finito in carcere nel 2011 nel blitz Hybris, che azzerò il mandamento mafioso di Pagliarelli.

Suleman aveva finito di scontare una condanna a 8 anni e, secondo quanto ricostruito dai carabinieri, sarebbe tornato a occuparsi soprattutto di estorsioni, in quanto ritenuto nuovo reggente della famiglia di corso Calatafimi. Il quarantasettenne aveva scalato le gerarchie proprio per la sua vicinanza con Nicchi, considerato il delfino del padrino di Pagliarelli Nino Rotolo.

Un personaggio quindi di peso, il cui nome evidentemente riesce ancora a incutere timore, anche se da dietro le sbarre. Nicchi, nel 2022 si è visto infliggere in via definitiva 7 anni e 4 mesi, nell’ambito di un processo del troncone residuale di Gotha, la maxi-inchiesta che portò a 90 arresti da parte della squadra mobile, nel giugno 2006. Lui, Gianni Nicchi, era sfuggito al blitz: venne arrestato il 5 dicembre 2009, in un covo nella zona del palazzo di giustizia.

La gestione del racket del pizzo

Il clan gestiva sistematicamente il racket del pizzo, con richieste di denaro alle vittime che si intensificavano con l’approssimarsi delle festività natalizie e pasquali. Il denaro estorto ai commercianti della zona di corso Calatafimi andava ad alimentare le casse dell’associazione e in parte veniva destinato al mantenimento degli uomini d’onore detenuti e delle loro famiglie.

Il modus operandi del clan per la gestione degli “affari”

Le estorsioni erano portate avanti con metodi abbastanza classici. Anzitutto il clan ha dimostrato di sapere esercitare un costante controllo del territorio, monitorando capillarmente gli esercizi commerciali, individuando per tempo quelli di nuova apertura. Soprattutto avvicinando i proprietari ancora prima dell’avvio dell’attività, costringendoli sin da subito a “mettersi a posto” e ricorrendo ad esplicite minacce nei casi in cui gli stessi mostrassero di non voler sottostare alle richieste estorsive.

Gli inquirenti, “Cosa nostra non vuole soccombere”

“L’operazione – sostengono gli inquirenti – restituisce un quadro in linea con le più recenti acquisizioni investigative, ovvero quello di una Cosa nostra affatto rassegnata a soccombere, che mantiene invece una piena operatività. Anzi, è capace non solo di incutere generico timore nelle vittime, ma anche di avvalersi della forza fisica quale forma estrema di controllo del territorio”.

Il rimprovero al pescivendolo “Dovevi dirlo che c’era lo sbirro”

Paolo Suleman e Giuseppe Marano erano andati a riscuotere il pizzo in una pescheria di corso Calatafimi ma un carabiniere, che passava da quelle parti, li aveva riconosciuti e da lontano si era messo a riprendere i loro movimenti con il telefonino.

Il commerciante taglieggiato avvertì i due

Loro non se n’erano accorti, ci aveva pensato il commerciante ad avvertirli e, per non destare sospetti, avevano dovuto comprare un polpo e due spiedini di pesce spada come clienti qualsiasi.

La rabbia dei malviventi

Ma gli esattori, piuttosto che ringraziare, si erano per giunta arrabbiati con il taglieggiato sostenendo che avrebbe dovuto avvisarli prima della loro visita. Davanti al negozio avevano evitato qualsiasi commento tenendo lontani i telefoni per il timore di essere intercettati, solo in seguito si erano sfogati tra loro ma la precauzione non era servita a nulla perché gli investigatori li stavano ascoltando lo stesso attraverso il cellulare di Marano.

“Il fatto se hai visto… Siccome io stamattina sono stato ripreso con il telefono, quando noi siamo arrivati. Praticamente mi ha fatto il video. Poi tu sei ritornato che io ti ho chiamato? L’ha fatto il video a tutti e due”, spiegava il capo della famiglia mafiosa di corso Calatafimi riferendosi proprio al carabiniere che aveva documentato il loro incontro con il cellulare. Suleman, quindi, era stato costretto a trovare un’alternativa per sviare i sospetti: “Io che cosa ho fatto poi? Me ne sono andato dal carnezziere (macellaio, ndr) e ho comprato la carne. Poi me ne sono andato da lui (in pescheria, ndr), gli ho detto: “dammi due spiedini e un polipetto”. Dice: “vedi che è questo”. Gli ho detto: “vabbè dammi”. Gli ho detto: “quanto pago? dice: “dieci euro!”, perciò eh … mi sono messo sai… e lui alluccava (guardava, ndr) a me”.

Il boss aveva svelato ai suoi compari che era stato il proprietario della pescheria ad indicargli la presenza del carabiniere (“vedi che è questo!”) mentre Marano aveva lodato l’intuizione di avere acquistato il pesce biasimando piuttosto il comportamento tenuto dal commerciante che, alla luce della natura illecita dei loro contatti, avrebbe dovuto segnalare in anticipo il pericolo: “Ci doveva dire a noialtri: “andatevene che c’è questo della Carini”, riferendosi appunto alla caserma, sede del comando provinciale dei carabinieri. Poi avevano parlato del pizzo che il titolare della pescheria non voleva saperne di versare. L’importo per rimpinguare le casse del clan era stato fissato in 500 euro ma l’uomo nicchiava, non tanto per un desiderio di legalità, quanto perché era «appoggiato» bene, evidentemente da un altro esponente di rilievo di Cosa nostra. Suleman era andato su tutte le furie minacciando di cacciarlo dopo che lo aveva autorizzato ad avviare l’attività nel territorio di sua competenza: “Non c’è motivo di fare questi nomi per 500 euro. Io gliel’ho avvisato, gli ho detto: ‘ma lei… ha nominato per cinquecento euro”. “No, ma io glieli volevo dare nel muso, a dire che non si deve permettere di nominarlo. Cornuto che sei, per come ti ho fatto venire, te ne faccio andare. Gli dovevo dire queste due parole sole, crasto che sei perché manco sei degno di nominarlo”.

Alla fine, come documentato dagli investigatori, l’esercente aveva ceduto ed era stato organizzato l’incontro per incassare la busta con i soldi.