Claudio Martelli, Ministro di grazia e giustizia all’epoca delle stragi di mafia, oggi direttore del giornale Avanti!, è stato ospite della 62esima puntata di Casa Minutella, il talk show condotto da Massimo Minutella su BlogSicilia.it.

Martelli, anzitutto, ha parlato di «gravi responsabilità» dopo la strage di Capaci: «Alludo, in modo preciso, alla mancata e omessa sorveglianza, tutela e protezione di Paolo Borsellino da parte di chi ne aveva la responsabilità. Parlo di omissione colpevole, se non di qualcosa di peggio. Perché, se le autorità palermitane (prefetto, capo della polizia, dei carabinieri, il procuratore generale, ecc.) ricevono dal ministro della Giustizia (io) e da quello degli Interni (Vincenzo Scotti), l’invito perentorio di garantire la massima sicurezza a Borsellino, non si comprende come sia stato possibile che l’auto che conteneva l’esplosivo sia stata lasciata tranquillamente parcheggiare davanti alla casa della madre del giudice dove si recava periodicamente. Avvenne un’inerzia responsabile o qualcosa di peggio?».

«All’indomani della strage di via D’Amelio – ha ricordato Martelli – mi recai a Palermo, insieme a Scotti e al presidente della commissione antimafia, Gerardo Chiaromonte, dove convocammo un vertice presso la Prefettura. Fui protagonista di un litigio furioso contro chi aveva la responsabilità di proteggere Borsellino e non lo fece. Chiesi dimissioni di massa e ottenni, nell’immediato, quella del Prefetto e poi alcuni avvicendamenti dopo. Ma anche la sfera giudiziaria doveva pagare il conto, però non accadde».

Martelli ha anche fatto il nome di Oscar Luigi Scalfaro, allora Capo dello Stato, e di Giovanni Conso, ministro della Giustizia dopo di lui: «Non li accuso di essere stati mafiosi o collusi. La mia è un’accusa politica. Cambiarono strategia quando c’era da affrontare cosa nostra sul campo, sulla scia dell’ondata di pentimenti e arresti, tra cui quello del capo dei capi, Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, un mese prima che lasciassi l’incarico e che permise allo Stato di sconfiggere e piegare la mafia. Lo Stato, infatti, non può stare sempre nella difensiva. Questa non è una strategia, così come non lo è accettare la convivenza. Scalfari e la maggioranza di politici, infatti, sostenevano naturalmente che le stragi fossero orribili ma, al contempo, che anche lo Stato aveva esagerato. I principali partiti, tra l’altro, si dichiararono contrari al cosiddetto decreto Falcone».

Martelli ha pure approfondito l’attacco che l’attuale sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, fece contro Falcone nel 1990: «Allora il giudice stava indagando sulle grandi commesse degli appalti palermitani e s’imbatté su uomini e aziende connessi a Vito Ciancimino, l’autore principale del sacco di Palermo, più volte indagato. Falcone non si spiegava perché, a un certo punto, il sindaco in carica, con cui aveva buoni rapporti, si scagliò contro di lui, lo denunciò al Consiglio Superiore della Magistratura, accusato di tenere nascosti nei cassetti della Procura i nomi dei mandanti politici dei grandi delitti di mafia, ovvero Giulio Andreotti. I magistrati chiesero a Falcone il perché di quell’accanimento e il giudice pensava che, forse, la ragione stava nell’avere cominciato a indagare sugli appalti di Palermo, scoprendo che, anche con Orlando, Ciancimino continuava a imperare su di essi. Falcone dovette spiegare anche i suoi metodi investigativi, tra cui il perché non inviava avvisi di garanzia, perché non li usava come forma di minaccia ma solo contro qualche ragionevole sospettato, non a casaccio tanto per lordare o sfregiare qualcuno”.

Martelli, mosso dal giornalista Piero Messina, ospite in studio insieme alla deputata all’ARS del M5S Roberta Schillaci, ha, infine, spiegato il motivo per cui, nel 1993, decise di dimettersi: «Mi sentivo inutile, attaccato anche dal segretario del partito a cui hai dato le tue capacità migliori».

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