Adesso è ufficiale e la notizia non lascia spazio a interpretazioni: la cucina italiana è stata riconosciuta Patrimonio Immateriale UNESCO. La candidatura, lanciata dal governo italiano nel 2023, oggi diventa un sigillo mondiale sulla nostra identità gastronomica.
Un successo storico, certo. Ma anche un esame che comincia adesso. Per capirne la portata, abbiamo parlato con Gianvito Gaglio, siciliano, uno degli interpreti più lucidi della cucina mediterranea contemporanea. E per lui, che ha costruito la sua formazione nelle cucine dove si diventa cuochi “sul serio”, questo riconoscimento è tutto fuorché una celebrazione comoda.

Non ci hanno premiati. Ci hanno messi sotto osservazione

Chef, l’UNESCO ha detto sì. Quanto pesa questo riconoscimento?

“Pesa come un impegno. Non ci hanno regalato una medaglia, ci hanno riconosciuto una responsabilità.
La cucina italiana è patrimonio non perché è buona, ma perché è un sistema culturale vivo. Adesso sta a noi dimostrare che lo sappiamo proteggere.”

L’aneddoto: “A Villa Crespi ho capito che la tradizione non è un menu, è un carattere”

A questo punto della chiacchierata telefonica, Gaglio sorride e racconta un episodio che segna un punto chiave della sua formazione.

“Io sono cresciuto a Villa Crespi, nella cucina di Antonino Cannavacciuolo. E lì ho imparato una cosa che non si insegna sui manuali: la tradizione non è una ricetta, è un carattere. Ricordo una mattina in cui stavo preparando un piatto che volevo rendere “perfetto”. Cannavacciuolo mi guardò e mi disse: “La perfezione non esiste. Esiste il rispetto.”
Quella frase mi è rimasta addosso. La cucina italiana sarà anche UNESCO, ma se dimentichi il rispetto  per l’ingrediente, per la storia, per la mano che ti ha insegnato, non stai cucinando: stai facendo scena.” Un aneddoto che chiarisce da dove viene la solidità del suo pensiero.

Tradizione? “Se la chiudi in una teca, muore”

Molti temono che il riconoscimento cristallizzi la tradizione. “La tradizione non è mai stata immobile. Se provi a tenerla ferma, muore.
La Sicilia lo dimostra: ogni sapore è il risultato di un passaggio, di uno scambio, di un incontro. L’UNESCO non ci chiede di stoppare l’evoluzione, ma di non farla diventare una scorciatoia.”

Gli chef come custodi e sentinelle

Il ruolo degli chef cambia davvero?

“Sì, cambia. Siamo custodi e sentinelle. Custodi perché difendiamo un sapere antico. Sentinelle perché dobbiamo vigilare su ciò che accade alle filiere, ai territori, ai mestieri. Dietro ogni piatto c’è una comunità. Non possiamo dimenticarlo.” “La Sicilia è la prova vivente che la cucina italiana non è una cucina: è un continente”. E prosegue, “La Sicilia è un concentrato di Mediterraneo: qui capisci che la cucina italiana non è un blocco unico, è un continente gastronomico. Ogni dominazione ha lasciato un gusto, un gesto, una tecnica. Il nostro vantaggio è sempre stato la contaminazione, non la purezza.”

Ingredienti, gesti e comunità: “Il patrimonio non sta nei ristoranti stellati”

Qual è il vero patrimonio? Gli ingredienti? I riti? Le ricette?

“Gli ingredienti sono fondamentali: grani antichi, agrumi, olio, pescato, erbe spontanee. Ma il cuore è un altro: sono i gesti.
Il pane fatto a mano, la salsa che cuoce tutta la mattina, il pesce pulito al porto. Il patrimonio non vive nei ristoranti stellati. Vive nelle case. Noi chef siamo soltanto amplificatori”

UNESCO come impegno: “Ci obbliga a proteggere la filiera, non la nostalgia”

Che cosa cambia ora per l’Italia?

“Cambia che non possiamo più raccontare la cucina italiana con la retorica della cartolina. UNESCO significa educazione alimentare, tutela dei territori, rispetto delle filiere. Non possiamo più delegare. È un impegno di tutti.”

Il messaggio finale: “Adesso comincia il difficile”

L’Italia meritava questo riconoscimento?

“Sì. Ma adesso comincia il difficile. Un patrimonio non basta averlo: devi dimostrare ogni giorno di saperlo tramandare.
E la cucina, più di tutto, è un patrimonio che muore se smetti di farlo. Quindi: maniche rimboccate.”