È una lettera densa di dolore e amarezza quella inviata da Roberto Zarcone, padre di Norman, al Ministro dell’Istruzione Bussetti. Sono parole di dolore, colme del senso di impotenza di un uomo che ha perso un figlio a causa di un gesto sorto dalle nefandezze di un sistema, quello universitario, fino ad oggi governato da poche famiglie, i cosiddetti baroni. Ultima, eclatante vicenda è l’inchiesta che ha coinvolto l’Ateneo di Catania dove sono stati scoperti alcuni casi di concorsi truccati e montati ad arte per permettere l’accesso a dottorati e specializzazioni di raccomandati.
Roberto Zarcone così nella sua lettera invia a Bussetti, come rappresentante pro tempore del sistema universitario, paragonato al complesso sistema mafioso e invita il politico ad una riflessione su una riforma dell’università che contempli i dettati dell’articolo 416 bis del codice penale per i casi conclamati di baronaggio.
Zarcone, con coraggio, descrive il mondo accademico di oggi, governato da una sorte di “rispetto” degli studenti nei confronti dei professori. “Questo rispetto – scrive Zarcone nella sua missiva – nasce dal potere associativo mafioso, dalla forza coercitiva che il gruppo esprime, dall’intimidazione, dall’omertà, dagli obiettivi comuni a salvaguardia degli scopi del nucleo associativo. Vi sono differenze culturali (con la mafia tradizionale ndr), è ovvio, i primi sparano sventagliate di kalashnikov (o ne sono mandanti), i secondi citano Orazio e Wittgenstein, però, mungi-mungi, stringi-stringi, l’obiettivo è quello di ottenere risultati per gli appartenenti alla propria famiglia e per se stessi”.
Gli ingressi e le progressioni di carriera, fa notare Zarcone, a partire da un semplice dottorato sarebbero gestiti dai baroni. E se c’è una attività sia “di per sé lecita”, con tanto di concorso pubblico bandito e pubblicato, vi sarebbe un “metodo illecito” che determina e guida le carriere, gli ingressi, le nomine, le graduatorie. Gli inquirenti in molti casi hanno parlato di sistema simile alla mafia. “Badi beneministro – continua la lettera -: non è Claudio Zarcone a sparare a salve le sue sentenze visionarie, ottenebrate dal pur legittimo sospetto, dalla rabbia, dalla devastazione interiore. Sono gli stessi magistrati a paragonare il sistema delle baronie alla mafia”.
Il papà di Norman ricorda poi il dolore per la perdita del proprio figlio. “A poche ore dalla morte di Norman, ho parlato di “omicidio di Stato” – dice -. Si è nei fatti “assassinato” un ragazzo brillante: giornalista, musicista, filosofo, che d’estate, e questa è storia, non fantacalcio, faceva il bagnino in un circolo nautico per apprendere l’etica del lavoro e della fatica fisica. Altro che “choosy”, “bamboccione” o “sfigato”. Norman non era un depresso, tutt’altro. Il suo cervello al fulmicotone era sempre in ebollizione e la depressione non sapeva proprio cosa fosse: la sua era una concezione allegra e briosa della vita. Gli amici lo chiamavano “Zuzzurellone” e così si è firmato nella lettera indirizzata ai suoi amici, scritta poche ore prima che mettesse in atto la sua drammatica decisione”.
Norman era un modello per i giovani ma la sua decisione, secondo il padre, è stata maturata e metabolizzata nel tempo. “Una dolorosa scelta filosofica oserei dire – sottolinea -. Mio figlio nell’ultimo periodo era incazzato, questo è l’aggettivo giusto. Il suicidio di Norman scaturisce dalla rabbia, dall’impossibilità di poter cambiare le cose e il suo gesto va catalogato come altruistico, perché parrebbe che i morti non godano di benefici terreni. Mio figlio con le sue due lauree con lode, il dottorato senza borsa pressoché concluso (terzo e ultimo anno) e il tesserino di giornalista pubblicista in tasca, non si sentiva un laureato di serie B, è semmai dentro quel dottorato che si sentiva di serie B: emarginato, non considerato, isolato come una metastasi da estirpare. Quel senso di isolamento lo fece sentire di serie B a soli ventisette anni. È dentro quel dottorato che monta a dismisura la sua rabbia”.
“Mio figlio, Signori della Corte, ministri, legislatori, magistrati, papi e re, non è stato un incidente di percorso in questa vita terrena – continua Roberto Zarcone -. Norman è stato ed è ancora il mio amore, l’amore mio, nato da un atto d’amore. Non poterlo più toccare, annusare il suo odore, vederlo leggere, udire la sua voce, è l’accelerazione della mia discesa agli Inferi. Il mio Inferno del quotidiano. Pensare a ciò che gli sarà passato per la testa, qualche secondo prima del “volo” (paura? pentimento? ricerca finale di Dio? o cos’altro?) mi satura di tanta, tale angoscia, da farmi desiderare la morte immediatamente”.
“Chissà quale sarà stato il suo ultimo pensiero, o per chi. E quale la sua ultima immagine visibile del mondo degli uomini: uno squarcio di cielo grigio, mentre i suoi teneri occhi si andavano chiudendo per sempre? Un lembo di duro selciato? Le gambe della guardia giurata che gli ha dato l’ultimo conforto? E cosa avrà udito? Le urla della gente accorsa? Il loro brusio agitato mentre qualcuno gridava, «chiamate un’autoambulanza»? Oppure gli sarà passato tutto davanti, prima di spegnersi, senza suoni, colori, sensazioni? E la sua giovane vita, gli sarà passata davanti agli occhi, nella mente? Il suo ultimo istante, come e in che modo sarà stato il suo ultimo istante (doloroso? impaurito? liberatorio?) prima che il tempo eterno della morte ponesse il suo sigillo ancestrale a quella giovane, incolpevole vita? Avrà avuto la chiara consapevolezza finale di cosa fosse accaduto, stesse accadendo? Avrà desiderato di tornare indietro nella sua decisione ribelle, premendo un bottone ideale, sperando nell’intervento di una forza divina? Avrà chiamato col nome di Dio, quella forza divina? Lo avrà riconosciuto come Dio prima di attraversare quella linea tanto temuta dagli uomini? O, al contrario, ribelle fino all’ultimo, deciso nella sua denuncia massima, ha accettato liberamente di entrare in quel sogno perpetuo, fatale, che noi chiamiamo morte? Norman era ancora vivo quando la guardia giurata gli diede l’ultimo conforto”.
Tutte domande alle quali il papà di Norman non avrà una risposta. “Ma ciò non toglie – sottolinea – che io condanni voi, colpevoli di ignavia e silenzi istituzionali complici.
Leggo spesso su un social media, di amici che festeggiano i propri figli, la loro “vita”. Io non potrò mai festeggiare un cazzo, potrò solamente morire dannato. Non ho nemmeno la possibilità di poter scambiare la mia vita con quella di mio figlio: cazzo, grido ancora più forte”.
“Ora mi dica, ministro Bussetti: cosa intende fare?”, così chiude la lettera.
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