Il dibattito acceso seguito alla decisione della Corte d’Appello di Torino sulla liberazione dell’imam Mohamed Shahin ha riportato al centro della scena un copione noto: la politica che accusa la magistratura di ostacolare la sicurezza, la magistratura che rivendica l’autonomia del giudizio, l’opinione pubblica divisa tra paura e garantismo. Le parole della Presidente del Consiglio, che si è chiesta come sia possibile “difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa viene annullata da alcuni giudici”, hanno dato voce a un disagio politico evidente.

Eppure, mentre questo scontro si consuma sul terreno della magistratura ordinaria, un’altra magistratura – quella amministrativa, di ultimo grado – ha assunto una posizione diametralmente diversa, offrendo una risposta che non indulge né nel conflitto né nella comprensione indulgente, ma richiama con fermezza i pilastri dell’ordinamento repubblicano.

La sentenza n. 1004 del 2025 del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, presieduta da Ermanno de Francisco ed estesa da Sebastiano Di Betta, non riguarda immigrazione o terrorismo, ma tocca un nervo altrettanto scoperto: il rapporto tra libertà, linguaggio e sicurezza quando a parlare è chi indossa l’uniforme. Ed è proprio per questo che la sua portata va ben oltre il caso deciso.

Il Collegio muove da un’affermazione che taglia corto con ogni equivoco: la libertà sindacale dei militari esiste, ma non è una libertà “civile travestita”. È una libertà “funzionalmente integrata in un ordinamento speciale”, nella quale la parola non è mai neutra, perché incide direttamente sul prestigio dell’istituzione e sulla fiducia dei cittadini. La sentenza lo chiarisce senza attenuanti: “la parola, il linguaggio, la forma del dissenso sindacale assumono un rilievo non accessorio, ma strutturale”.

Qui emerge la distanza culturale tra due modelli di giurisdizione. Da un lato, il giudice chiamato a valutare la pericolosità individuale, ancorandosi a parametri strettamente tipizzati; dall’altro, il giudice amministrativo che guarda alla tenuta complessiva dell’ordinamento, al modo in cui il linguaggio pubblico può trasformarsi in fattore di destabilizzazione istituzionale. Non antagonismo verso il Governo, ma consapevolezza del ruolo dello Stato.

È in questo contesto che la sentenza utilizza immagini forti, tutt’altro che casuali. Il Collegio mette in guardia contro la costruzione simbolica di una frattura tra il “noi” delle truppe e il “loro” del “Palazzo”, contro l’idea di un “popolo in armi” contrapposto alle istituzioni democratiche. Quando la critica si trasforma in invettiva, quando il dissenso diventa delegittimazione, “il limite oltre il quale l’ordinamento non protegge più l’esercizio di un diritto risulta superato”.

Il passaggio più netto riguarda la difesa della Patria. Il Consiglio di Stato afferma che l’espressione di “sfiducia verso il governo”, se proveniente da un militare in servizio, “non può considerarsi lecita in alcun caso, né consentirsi per alcun motivo e in alcun contesto”. Non per difendere un governo in quanto tale, ma perché chi è chiamato a difendere la Patria deve essere pronto a farlo indipendentemente dal colore politico dell’esecutivo. L’apoliticità non è un limite alla libertà: è la sua condizione.

Qui la sentenza diventa una lezione che parla anche ai cittadini. Le libertà non sono garantite da apparati che prendono posizione contro il “Palazzo”, ma da forze che restano leali all’ordinamento repubblicano, proprio perché così garantiscono tutti, anche chi dissente. Il “popolo in armi”, se si percepisce come corpo separato o antagonista, non rafforza la democrazia: la mette in pericolo.

Non sorprende allora che il Collegio ribadisca come il militare-sindacalista “non cessa, in alcun momento, di essere integralmente soggetto alla disciplina e alla gerarchia”. Non è repressione del dissenso, ma difesa dell’equilibrio costituzionale. Anche la sanzione disciplinare viene letta come atto di delimitazione, non di censura: l’Amministrazione “non ha inteso recidere il diritto di associazione sindacale, ma tracciare la linea oltre la quale la parola diventa strumento di corrosione del rapporto di fiducia con i vertici istituzionali”.

Mentre la politica reagisce con inquietudine a una decisione della magistratura ordinaria, la magistratura amministrativa di ultimo grado mostra un volto diverso della giurisdizione: non oppositivo, non emotivo, non indulgente, ma rigoroso, consapevole, persino severo. Un giudice che non si chiede se una decisione “piacerà”, ma se salvaguarda la Patria come spazio comune e la libertà come responsabilità.

La n. 1004 del 2025 lo ricorda con una sobrietà che pesa più di molte polemiche: la sicurezza non nasce dal conflitto tra poteri, ma dalla loro disciplina reciproca