Il Ministero dell’Interno dovrà risarcire con 300mila euro la famiglia di Michele Amico, il tabaccaio assassinato per essersi ribellato al racket del pizzo.

Lo ha deciso il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia ribaltando il pronunciamento del Tar con una sentenza pronunciata nei giorni scorsi, estensore Sebastiano Di Betta, presidente Roberto Giovagnoli.

La vicenda

Michele Amico fu assassinato a Caltanissetta il 23 ottobre 2003. Il tabaccaio si era ribellato all0imposizione del pizzo e per questa sua opposizione al racket delle estorsioni fu condannato a morte dalla mafia. E’ stata la Corte d’Appello di Caltanissetta, due anni fa, a riconoscere il movente mafioso e lo status di vittima innocente. Nella medesima sentenza la Corte d’Appello di Caltanissetta aveva anche riconosciuto ai tre familiari della vittima di mafia tutti i benefici di legge, sentenza alla quale il ministero non aveva fatto ricorso in Cassazione, pagando le spese processuali.

Il Ministero non paga

Nonostante il pronunciamento il Ministero aveva ritenuto che fra i benefici di legge non spettasse il vitalizio ai parenti superstiti e si era opposto, per via amministrativa, al riconoscimento dell’assegno contestando la procedura con la quale era stata avanzata la richiesta.

Il Tar dava ragione al Ministero

I congiunti della vittima di mafia avevano fatto ricorso al Tar di Palermo che, in prima istanza, l’aveva respinto. Il Cga, chiamato in causa in sede di appello, invece ha accolto le motivazioni di due dei tre familiari ed ha ribaltato il pronunciamento ritenendo che le motivazioni ministeriali siano solo un “eccesso di formalismo”.

Le motivazioni del CgA

Per i giudici amministrativi “la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta si configura non come una mera pronuncia di condanna pecuniaria, bensì come un atto di riparazione istituzionale, con il quale lo Stato, attraverso il suo giudice naturale, riconosce e riafferma il debito di memoria e di sostegno nei confronti dei congiunti di chi ha perduto la vita a causa della criminalità organizzata”.

Ne consegue che “le appellanti non agiscono per ottenere un beneficio economico aggiuntivo, ma per rivendicare la piena attuazione di un beneficio già concesso e passato in giudicato nel momento in cui la decisione  che ha riconosciuto loro lo status di familiari di una vittima innocente della mafia, status che – per sua natura – non si esaurisce in una somma di elargizioni, ma rappresenta il segno tangibile del vincolo che unisce lo Stato ai suoi cittadini quando questi ultimi subiscono, in prima persona, le ferite della violenza criminale».