Una donazione da un milione di dollari per chiudere il caso di Giovanni Lo Porto il cooperante palermitano rapito in Pakistan nel gennaio 2012 mentre lavorava per una Ong tedesca nell’assistenza alle popolazioni pachistane colpite dalle inondazioni.

Fu sequestrato assieme a un suo collega tedesco, poi rilasciato. Tutto il resto della prigionia è avvolto nel mistero, inclusa l’esatta formazione che lo teneva in ostaggio. Poi nel gennaio 2015 è stato ucciso assieme al cittadino americano Warren Weinstein.

La transazione, come scrive Repubblica, è avvenuta davanti ad un notaio romano con il “direttore del centro di management finanziario” dell’ambasciata Usa.

Il documento bilingue siglato l’8 luglio scorso sembra una sorta di lapide tombale sulla speranza di avere la verità sull’operazione dei droni statunitensi in Pakistan che nel gennaio 2015 ha causato la morte del volontario palermitano, rapito tre anni prima da una formazione terroristica. Barack Obama in persona chiese scusa alla famiglia, assumendosi la responsabilità dell’azione “come presidente e come comandante in capo delle forze armate “.

Il pagamento però non è un risarcimento ma solo una concessione a titolo “di favore”: “ex gratia”, appunto, una formula che non comporta alcuna assunzione di responsabilità giuridica. Si tratta soltanto di una “donazione in memoria del Sig. Giovanni Lo Porto “.

È la prima volta dall’inizio della “guerra dei droni” che viene rivelato un documento di questo tipo. La campagna di attacchi condotti in tutti i continenti con aerei teleguidati, strumento prediletto dall’amministrazione Obama per la lotta al terrorismo, ha ucciso migliaia di persone, colpendo anche civili e bambini. Mai però finora era emerso il testo di un accordo tra il governo Usa e i familiari di una delle vittime innocenti. Repubblica ha contattato organizzazioni e legali che assistono – dalla Gran Bretagna alla Germania, dal Pakistan agli Stati Uniti – i parenti dei “caduti collaterali” di questa guerra segreta.

L’avvocato Jennifer Gibson di “Reprieve” con sede a Londra, che rappresenta alcune di quelle famiglie, racconta: “Per quello che ci risulta, gli Stati Uniti non hanno mai ufficialmente risarcito nessuno in Pakistan per la morte dei loro congiunti innocenti. In Yemen, si sono verificati tre o quattro casi in cui ai parenti delle vittime sono stati offerti dei pacchi di dollari, che sembrano provenire dagli Usa. Ma quando le vittime hanno cercato di accertarne l’origine si sono trovati davanti a un rifiuto. Si tratta, dunque, di soldi messi sul tavolo senza il riconoscimento di responsabilità “.

Anche il punto dieci della proposta di pagamento ai Lo Porto sottolinea che “la donazione è regolata dalla legge italiana. Ciò non implica il consenso degli Stati Uniti d’America all’esercizio della giurisdizione italiana in eventuali controversie direttamente o indirettamente connesse al presente atto. E in particolare il presente atto non implica una rinuncia all’immunità sovrana o personale”. Dopo questi soldi, la famiglia sembra avere ancora meno strade per sapere cosa è esattamente successo e quali sono stati gli errori che hanno determinato la morte del loro parente.

I Lo Porto, rappresentati dallo studio legale internazionale Saccucci Fares & Partners di Roma hanno sempre puntato a raggiungere la verità. “Nel corso delle trattative che hanno condotto all’atto di donazione”, spiega l’avvocato Giulia Borgna, “questo tema è ovviamente venuto fuori. La famiglia continua a insistere su questo fronte”. Contattato da Repubblica, il Dipartimento di Stato di Washington non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

Quello che sappiamo è che Giovanni Lo Porto venne rapito in Pakistan nel gennaio 2012 mentre lavorava per una Ong tedesca nell’assistenza alle popolazioni pachistane colpite dalle inondazioni. Fu sequestrato assieme a un suo collega tedesco, poi rilasciato. Tutto il resto della prigionia è avvolto nel mistero, inclusa l’esatta formazione che lo teneva in ostaggio. Poi nel gennaio 2015 è stato ucciso assieme al cittadino americano Warren Weinstein.

È morto a 37 anni nell’attacco di un drone in uno dei tanti controversi “signature strike”: bombardamenti in cui viene preso di mira un obiettivo solo perché appare sospetto, senza però alcuna informazione specifica sulla presenza certa di terroristi. E senza la possibilità di verificare quanti innocenti finiscano sotto tiro.