Il Dott. Saverio Stranges è attualmente il capo del dipartimento di epidemiologia e biostatistica della Western University of London in Canada. Comincio la sua carriera accademica presso l’Università Federico II di Napoli dove ottenne la laurea in medicina preventiva e specializzata sulla sanità pubblica, successivamente decise di approfondire le sue ricerche alla State University di New York situata in Buffalo. Il suo cammino non termina qui, infatti, il nostro connazionale si trasferì nel Regno Unito dove continuò a lavorare per 9 anni per l’Università di Warwick, in seguito altri 2 anni a Lussemburgo da direttore scientifico della Population Health ed infine nuovamente nel continente americano.
Nonostante il curriculum internazionale di tutto rispetto, il professor Stranges, con umiltà ed intelligenza, ci tiene a precisare che nessuno è depositario di verità assolute. La sua analisi della pandemia da Covid-19 è però molto lucida e ci aiuta a districarci fra i tantissimi dati, numeri ed informazioni che ci hanno sommerso in queste ultime settimane. Queste alcune sue considerazioni:
“Per chi fa ricerca nel nostro ambito, quello dell’epidemiologia e della sanità pubblica, era abbastanza ovvio che questo virus avrebbe potuto avere un impatto globale; del resto c’erano già state delle avvisaglie con altri virus che negli ultimi anni avevano attecchito in più Paesi. In società così interconnesse come le nostre, pensare che ciò che accade in una città della Cina non possa avere implicazioni in altre parti del mondo mi sembra una visione miope.”
Riguardo le differenze con la SARS l’esperto si è espresso in questi termini:
“Sicuramente l’alta contagiosità, a dispetto di una mortalità inferiore a quella della SARS e della MERS. Nonostante la mortalità abbastanza bassa, la sua elevata contagiosità, al cospetto di una popolazione priva di alcuna immunità pregressa, gli ha consentito di mietere moltissime vittime fra i soggetti più fragili: anziani, persone con patologie croniche, immunodepressi. Ci troviamo dinanzi ad un’emergenza che non ha precedenti nell’ultimo secolo; per trovare qualcosa di analogo dobbiamo tornare indietro alla spagnola del 1918.”
“Partiamo dal tasso di letalità, in inglese case fatality rate. E’ dato dal numero dei decessi diviso per il numero dei positivi; in Italia al momento si attesta intorno al 13%. Questo valore è senza dubbio una sovrastima. Se siamo più o meno sicuri del totale dei morti da Covid, c’è grossa incertezza sul denominatore, il numero dei positivi. C’è chi ha ipotizzato che in Italia, così come in altri Paesi, ci sia in realtà un numero di positivi dieci volte maggiore di quello accertato ufficialmente. Se così fosse, la letalità passerebbe dal 13% all’1,3%. Per rendermi conto del reale impatto della pandemia non guardo tanto al numero dei positivi, ma a quello dei medici deceduti in Italia negli ultimi due mesi, ad oggi sono 131, uno sproposito. Un altro indicatore significativo è il numero dei decessi giornalieri; in Italia siamo passati dai 900 al giorno, ai 700, poi ai 600; ora siamo nel range dei 500: la speranza è che si continui a scendere nei prossimi giorni. Nessun Paese occidentale era preparato a questa pandemia; all’inizio abbiamo faticato a fare i tamponi, poi il numero di test effettuati è andato crescendo gradualmente. Ciò che ci aiuta a comprendere il trend epidemiologico non è tanto il numero assoluto dei casi positivi giornalieri, ma il rapporto fra questo e il numero totale di tamponi effettuati in quel giorno; se si osserva che il valore percentuale continua a scendere, come sta avvenendo in Italia negli ultimi giorni, significa che il lockdown sta funzionando.” – Spiega Stranges sulla lettura dei dati italiani.
Continua poi più nello specifico:
“Se rimuovessimo il dato lombardo, la narrazione sulla pandemia sarebbe molto diversa. La Lombardia ha una letalità del 18%; il resto dell’Italia si attesta intorno al 9%, in Campania siamo al 7% circa. Bisogna dire però che le percentuali più basse nelle altre regioni sono legate anche al lockdown, che ha consentito di contenere le infezioni. Purtroppo in Italia i sistemi sanitari negli ultimi anni sono stati improntati alla gestione delle patologie croniche: andiamo abbastanza bene con malattie cardiovascolari, tumori, malattie neurodegenerative e così via. Un modello però carente sul piano della prevenzione epidemiologica e della medicina di territorio; la risposta all’epidemia in Lombardia è stata prettamente ospedaliera: la medicina di territorio, primo argine contro il virus, è stata completamente assente. Gli ospedali sono stati così sovraccaricati e e il numero di pazienti ha superato la capacità del sistema. Sul fatto che la fase uno della pandemia sia conclusa avrei delle remore, anche se abbiamo indubbiamente registrato un calo nei contagi. Sappiamo che verosimilmente potrebbe esserci un nuovo picco epidemico probabilmente a cavallo fra autunno e inverno. La fase due allora dovrebbe essere quella di convivenza col virus, rispettando tutte le misure di distanziamento fisico. Nella fase due dovremo misurare la civiltà delle popolazioni coinvolte, affidarci alla responsabilità individuale delle persone. Qui sorge un interrogativo: Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti; queste società riusciranno ad avviare quella transizione sociale e culturale dei comportamenti individuali che consenta di minimizzare il rischio di nuovi focolai? Non ne sarei così sicuro.”
Infine si esprime sulle possibilità riguardo ad una vaccinazione efficace:
“Sono tre i possibili sviluppi. Partiamo dal primo, quello più favorevole: il virus si potrebbe gradualmente attenuare in modo naturale; ma è un’ipotesi in cui non credo molto. Il secondo scenario è quello in cui noi riusciamo a mettere a punto una terapia farmacologica che risulti efficace sulla stragrande maggioranza dei pazienti. Sono in corso innumerevoli trials clinici che stanno testando una serie di molecole; con ogni probabilità nell’arco dei prossimi mesi si riusciranno ad individuare le migliori opzioni farmacologiche per contenere il numero di decessi da Covid-19. Terza opzione: il vaccino, la soluzione radicale che ripristinerebbe effettivamente la normalità. Sappiamo però che per poter testare un vaccino, dai modelli animali alle tre fasi di sperimentazione nell’umano, ci vogliono di solito dai dodici ai diciotto mesi. Bisogna dimostrare che funzioni sull’uomo e che sia sicuro. E poi produrne una quantità sufficiente per soddisfare l’esigenza della popolazione. Nelle stime più ottimistiche parliamo di un anno. Tempi tecnici difficili da accorciare.”
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