• Gli interrogatori dei presunti esponenti del clan Trigila di Noto
  • Hanno negato di aver intimidito le aziende concorrenti alle loro
  • Il boss ha detto che nei colloqui in carcere parlava solo delle sue aziende

Ha rilasciato solo delle dichiarazioni spontanee Antonio Giuseppe Trigila “Pinuccio Pinnintula”, 70 anni, indicato dai magistrati della Dda di Catania come il boss della cosca Trigila di Noto, finito in carcere, insieme ad altre 12 persone, al termine dell’operazione antimafia Robin Hood sul monopolio delle imprese legate al clan nel settore dei trasporti dei prodotti orto-frutticoli, della produzione di pedane, imballaggi e dei prodotti caseari. Secondo i magistrati avrebbero avuto una posizione monopolistica, sfruttando la loro forza  criminale.

La difesa del boss

“Nei colloqui in carcere con i miei familiari ho solo parlato della mia azienda zootecnica” ha riferito Trigila, assistito dall’avvocato Antonino Campisi, nel corso dell’interrogatorio di garanzia davanti al Gip del Tribunale di Catania, e sulla stessa lunghezza d’onda sono state le dichiarazioni della moglie, Nunziatina Bianca. Secondo gli agenti della Squadra mobile di Siracusa, che hanno condotte le indagini, il boss, nel corso dei colloqui in carcere con la moglie ed altri familiari, avrebbe dato direttive sull’attività criminale, fondata sulle intimidazione alle imprese che avrebbero voluto fare concorrenza a quelle legate alla cosca.

“Io ero al 41 bis”

Ha risposto alle domande del gip il figlio del boss, Giuseppe Trigila, 47 anni, il quale ha sostenuto che, in merito ai fatti contestati, riferibili al 2018, “ero sottoposto al 41 bis”, per cui, a suo parere, non avrebbe mai potuto partecipare alla conduzione delle aziende. Ha spiegato anche di aver trovato lavoro nelle Marche, come pastore, circostanza che, a suo avviso, lo avrebbe allontanato dagli interessi a Noto.

“Nessuna intimidazione”

A parlare al gip è stato anche il nipote del boss, Giuseppe Trigila, omonimo del figlio, 43 anni, a cui contestano di aver voluto mettere sotto il tacco un’azienda concorrente, specializzata nel commercio dei prodotti caprini, ma nel corso della sua deposizione l’indagato, anch’esso difeso dall’avvocato Antonino Campisi, ha spiegato di aver avuto solo dei rapporti di lavoro con quegli imprenditori, che, a loro volta, si sarebbero rivolti a lui per concludere degli affari. Insomma, secondo il 43enne non vi sarebbe stata alcuna intimidazione nei confronti delle presunte vittime.

La difesa de “u caliddu”

Tra gli arrestati anche Giuseppe Caruso, detto “u caliddu”, che, secondo gli inquirenti, grazie ai contatti con le aziende di autotrasporti che operavano nella zona sud della provincia e in quella di Ragusa, aveva il compito di raccogliere i versamenti di denaro imposti agli operatori del settore per poter lavorare senza incorrere in problemi. “Sono solo un intermediario” ha detto Caruso che ha negato di aver intimidito le aziende di trasporto, secondo la sua versione era arrabbiato, come emerge nelle intercettazioni, perché non gli erano state saldate le provvigioni.