Ciro Lomonte
Ciro Lomonte è laureato in Architettura e appassionato di storia e arte della Sicilia, dal 2009 è docente del Master di II livello in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Università Europea di Roma.
Mi si chiede un intervento che rischierebbe di essere descrittivo di fenomeni dolorosi. Un po’ come la famosa serie televisiva del momento, Adolescence, peraltro ambientata in contesti urbanistici di una certa qualità, nello Yorkshire. In quel caso vengono accuratamente presentati degli adulti incapaci di capire e tanto meno di educare gli adolescenti, senza spiegarne le ragioni. Oppure potremmo rilevare la triste realtà di avere contemporaneamente le città storiche più belle del mondo e le città moderne (e le periferie) più brutte del mondo. Oppure ancora potremmo stigmatizzare la gentrificazione, l’abbandono dei centri storici da parte degli abitanti, degli artigiani, dei commercianti che li hanno resi belli, per consegnarli ai nuovi ricchi. Oppure infine potremmo lamentarci del turismo mutandaro (espressione coniata con acribia chirurgica da Vicky Alliata, la prima traduttrice de Il Signore degli Anelli), il turismo di massa che devasta i luoghi d’arte come se fossero oggetti di consumo usa e getta. Qui invece ritengo molto più efficace sforzarci di esaminare le radici di quelle meraviglie che sono i centri storici, per comprendere il “segreto” più essenziale della bellezza della città medievale.
Urbanistica e Architettura in cerca dell’umano. Sembra molto pertinente al tema di questo convegno e, ovviamente, alle ricerche raccolte nei volumi di Cesare Capitti menzionare la ricorrenza dei 1700 anni dalla celebrazione del primo Concilio di Nicea (20 maggio – 25 luglio 325). Lì vennero definiti dei concetti filosofici e teologici (homousios, hypòstasis, prósôpon) per accostarsi al mistero di un Dio Uno e Trino.
Se la relazione in Dio non è un accidente, bensì è sostanza, la Paternità definisce la Persona del Padre, la Filiazione la Persona del Figlio, la Spirazione la Persona dello Spirito Santo. D’altra parte l’essere umano è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Poco a poco i nostri antenati compresero che non è l’individuo di una specie, bensì persona, cioè individuo e relazione, unico e irripetibile, identità non replicabile in modo seriale. Da qui deriva il rispetto dovuto ad ogni singola vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale.
Il termine persona proviene dal latino persōna (corpo/maschera dell’attore) e questo probabilmente dall’etrusco phersum (corpo/“maschera dell’attore”, “personaggio”), il quale procede dal greco πρóσωπον (prósôpon). Quello di persona è un concetto principalmente filosofico, che esprime la singolarità di ogni individuo della specie umana in contrapposizione al concetto filosofico di “natura umana” che esprime ciò che tutti hanno in comune.
Il significato attuale di persona ha origine nelle controversie cristologiche dei secoli IV e V. Nel corso del dibattito tra le differenti scuole teologiche, si svilupparono concetti fino allora sconosciuti. Si cercava di disporre di strumenti del pensiero filosofico, attraverso i quali mantenere un dibattito intellettuale onesto e rigoroso circa la realtà del Λóγος (Logos: “Parola”), che permettessero di chiarire le differenze o similitudini di questi con Dio Padre. Per questo la filosofia prese in prestito dal teatro greco il termine πρόσωπον (prósôpon), e lo trasformò in un termine filosofico, definendo il Λóγος (Logos) come Persona divina. Per affinità, il concetto fu in seguito applicato allo Spirito Santo, agli angeli e agli esseri umani tutti. In ambito filosofico, si definisce persona un essere dotato di coscienza di sé e in possesso di una propria identità. L’esempio più evidente di persona – per alcuni l’unico – è la persona umana. La nozione di “persona” è anche oggetto degli approfondimenti propri dell’antropologia filosofica e del diritto naturale oltre che della Dottrina Sociale della Chiesa.
Per fissare i concetti è stata particolarmente importante la definizione che Severino Boezio (475-526) ha dato di “persona” nel De consolatione philosophiæ (fra le altre opere), come “rationalis naturæ individua substantia” (sostanza individuale di natura razionale). Come in tutte le definizioni aristoteliche, sono presenti il genere e la differenza specifica (quella che determina la specie): il genere è l’individua substantia, mentre la differenza specifica è il rationalis naturæ che identifica le persone con le specie dotate di intelletto o ragione (Dio, gli angeli e l’uomo). Tommaso d’Aquino chiarì che gli esseri di natura razionale sono quelli che hanno il dominio dei propri atti e che si muovono da sé stessi e non per la spinta di altri.
Nel cristianesimo anche il concetto neoplatonico di ipostasi svolse un ruolo fondamentale nella formulazione della dottrina trinitaria: i caratteri specifici di Padre, Figlio e Spirito Santo furono definiti come ipostasi (sostanza personale), ma posti a un livello paritario e non più gerarchico. Il termine “ipostasi” fu così consacrato dal Concilio di Calcedonia (451) che affermò l’esistenza in Cristo di un’unica ipostasi-persona in due nature o essenze: umana e divina.
Può sembrare esagerato, eppure è ragionevole pensare che l’elaborazione teologica e filosofica del concetto di persona sia alla base della nascita della città medievale, molto diversa dalla città greca o romana. Si passa dagli angusti stenōpói (rigidamente ortogonali) e dalle insulæ massificate e anonime al rapporto rispettoso con la natura dei luoghi e con le caratteristiche degli abitanti di tutti i ceti. È un salto di qualità enorme.
Questo aspetto, così fecondo nel Medioevo, nell’idea di città che emerge dalle teorie razionaliste non c’è più, perché in fin dei conti non c’è più l’essere umano. C’è una macchina senziente, con necessità fisiologiche ma non relazionali. Del resto la modernità, con Charles Fourier (1772-1837), ha teorizzato pure i falansteri collettivisti, con piani destinati solo a bambini o solo a donne o solo a uomini. Non c’è persona, non c’è famiglia, non c’è libertà. Tutti gli individui appartengono allo Stato. Sono ideologie abbracciate dalle avanguardie architettoniche del Novecento. Che hanno aggiunto alla disumanizzazione della città e della casa la firma del demiurgo creativo, una semidivinità autodichiarata e supportata dai critici di architettura, alla quale il comune mortale non può obiettare nulla. C’è da chiedersi se non sarebbe giunta l’ora di promuovere un’architettura senza architetti. Un’architettura senza aggettivi, coniugata in una qualità diffusa della città. Che torni ad avere un adeguato rapporto con la campagna. Come sostiene Stefano Serafini (Research director, International Society of Biourbanism), le città moderne, proprio offuscando l’interfaccia con il proprio ambiente rurale e naturale, sono diventate sempre più dipendenti da flussi (incluse le decisioni politiche) provenienti da fonti globali e delocalizzate. Ciò le ha rese come organismi al limite della morte clinica, tenuti in vita da dispositivi esterni. In particolare, le megalopoli, con i loro ambienti ostili e sradicanti per una popolazione mondiale sempre più urbanizzata, mostrano abbondanti segni di essere sistemi sull’orlo di punti di svolta di fase catastrofici quali crisi ecologiche, sanitarie e politiche. Tale condizione si riflette nella dipendenza dell’inurbato che paga la sua appartenenza a una civiltà dell’interfaccia con una fragilità pari a quella del sistema. Si pensi a cosa accadrebbe a milioni di abitanti metropolitani se soltanto s’interrompesse la distribuzione di beni alimentari o di energia elettrica per qualche giorno. Si pensi a cosa è successo con la pandemia. O con il black out in Spagna, Portogallo e Francia.
La Sicilia è sempre stata, sin dagli albori della sua storia, una terra policentrica. Sulle coste orientali c’erano le città siceliote, al centro e ad ovest c’erano sicani ed elimi, sulle coste occidentali c’erano gli insediamenti sicano punici. Siracusa godeva certamente di grande prestigio, ma erano molti i centri urbani di grande vitalità, in relazione alle consistenti risorse agricole, minerarie, manufatturiere.
Dal Medioevo in poi l’Isola viene arricchita da un proliferare di città e cittadelle fortificate, con tradizioni proprie, una più bella dell’altra. Il loro fascino era dovuto anche alla sapienza con cui veniva assecondata l’orografia dei luoghi. Non c’erano piccoli centri sul mare, per via della pirateria, debellata solo nel 1830. Soltanto una narrazione faziosa può ignorare che la Sicilia ha fior di comuni che hanno contribuito alla sua storia. Soprattutto dopo la nascita del Regno di Sicilia, nel 1130, il governo parlamentare più antico del mondo si trovò a rappresentare due generi di aggregazioni cittadine: quelle feudali e quelle demaniali. Tale distinzione sta alla base delle caratteristiche morfologiche e architettoniche delle città, legate al diverso tipo di amministrazione. In generale, nelle città demaniali come Erice, gli abitanti erano governati da un bajulo e dai giureconsulti. La comunità di Erice era talmente orgogliosa della propria autonomia che nel Seicento i cittadini si autotassarono per scongiurare il pericolo di divenire sudditi di un feudatario. Erice non aveva piazze, anche perché nebbia ed umidità sconsigliavano incontri all’aperto. Venule e strade sfidavano il visitatore a trovare gli snodi principali del labirinto, fra i quali si annoverava la chiesa di S. Giuliano, patrono della città, al cui interno si svolgevano le adunanze cittadine. Di chiese ce n’erano addirittura 36, in un territorio urbano di appena 24 ettari. Non è certo l’antichissimo tèmenos della dea della fertilità, trasformato in castello nel XII secolo, a trasmettere l’intensa spiritualità che si percepisce nella meravigliosa città.
Di fatto le città demaniali siciliane erano piccole repubbliche con tanto di ordinamento costituzionale e giuridico proprio: le “consuetudini”. Il bajulo nelle più piccole, antica magistratura di epoca normanna, diventava nelle più grandi e più autonome ora il Prefetto di Trapani, ora il Patrizio di Catania, ora lo Stratigò di Messina, ora il Pretore di Palermo. Anche le città feudali erano tante poleis con il proprio ordinamento. In alcune c’erano anche magistrature elettive, per es. un Capitano, nominato dal Principe, assistito dall’assemblea dei civili e dei borgesi. Alle città feudali bisogna aggiungere quelle di nuova fondazione aristocratica dopo il Cinquecento, al centro di grandi feudi coltivati, in località vocate a dare alloggio ai contadini. In questi luoghi il principe era il detentore del potere amministrativo e giudiziario. La piazza centrale era dominata dal palazzo principesco e dalla chiesa madre. Nel caso della famiglia Branciforti, una delle più potenti, dipendevano da essa Butera, Cammarata, Grammichele, Leonforte, Mazzarino, Militello, Niscemi, Pietraperzia, Raccuja, Scordia. A guardar bene, queste ed altre famiglie nobiliari ebbero notevoli capacità di gestione economica, tanto da mantenere il controllo di città più o meno piccole per parecchi secoli. La loro cultura e il loro mecenatismo furono alla base di continue operazioni di abbellimento dei centri urbani e di sostegno a chiese e conventi degli ordini religiosi che vi si insediavano.
I materiali da costruzione contribuiscono non poco all’armonia dei centri storici. In Sicilia il laterizio era usato prevalentemente per tegole, grondaie e pluviali. I muri erano di calcarenite robusta (il colore è diverso a seconda della zona di estrazione), le decorazioni di pietra lavica o di breccia (il billiemi di Palermo) o di marmo siciliano. Per il legno di coperture e infissi veniva impiegato il castagno o altre essenze locali stagionate.
I centri storici siciliani andrebbero esplorati alla ricerca di soluzioni per la rigenerazione urbana, che – più che vaneggiare su futuriste smart cities o sul fraintendimento della città dei quindici minuti a piedi – dovrebbero ripartire dal rispetto della dignità di ogni persona umana e delle sue forme di aggregazione, prima fra tutte la famiglia.
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