Maurizio Zoppi

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C’è un ragazzo inglese, raffinato, elegante, direttore di una galleria d’arte a Londra, venuto a Palermo per vedere i mosaici. Torna a casa con le ossa rotte, una faccia che non riconosce più allo specchio e un biglietto di ritorno carico di paura e delusione.

C’è un gruppo di giovani che lavora in una cioccolateria artigianale vicino via Alloro, colpevoli solo di vivere in una città che non sa più dove finisce il cioccolato e dove comincia il sangue. Pestati a freddo, forse solo per sport. Sport da combattimento, appunto.

È successo nel cuore del centro storico. Non in periferia, non nei ghetti dove ci si aspetterebbe l’inferno. No, qui dove si vendono case a 1 euro ai turisti, dove i vicoli s’illuminano per i tour serali e le guide raccontano la Palermo araba-normanna con gli occhi pieni di orgoglio. Solo che, dietro la guida, a volte arriva il branco.

Qualcuno mormora: “Quando c’era la mafia queste cose non succedevano”. E qualcun altro, in silenzio, annuisce. Forse ricordando che il “controllo del territorio” una volta esisteva. Era feroce, violento, ma almeno non a caso. Non così sbandato.

La verità? È che oggi Palermo è una città senza più padrini né padri.

Una città incattivita, che ha perso ogni riferimento. Dove i giovani crescono guardando serie tv su Netflix con i sottotitoli in dialetto napoletano e sognano di diventare i nuovi Genny Savastano. Solo che qui non ci sono copioni scritti, né telecamere: c’è solo la realtà, e quando picchi qualcuno, quello resta per terra.

Le armi? Facili da trovare. Come nei vecchi Blockbuster: oggi non noleggi più “Titanic”, ma una glock. O una Beretta.

Le regole? Non ci sono. I giovani fanno sport da combattimento, ma non salgono mai sul ring: troppo pericoloso. Meglio il vicolo, meglio il branco. Non c’è un avversario, ma una vittima. Lì puoi vincere facile. E sentirti qualcuno.

Intanto, c’è chi propone le ronde armate, i vigilantes di quartiere con le mazze in mano, pronti a farsi giustizia da sé. La nuova moda: il giustiziere della notte.

Prossimamente al cinema: “Macelleria Palermo”, con una colonna sonora tra la trap e il neomelodico, magari un cameo di qualche influencer da quartiere.

Ma la vera domanda è: cosa abbiamo perso per diventare così?

Forse tutto. O forse solo qualcosa che oggi sembra un’utopia: la cultura del limite, dell’ascolto, della comunità. I padri, i maestri, i vecchi della piazza che ti dicevano “questa cosa non si fa”.

Oggi chi lo dice? Chi ha voce? Chi ascolta?

Palermo è diventata una città senza guida, senza spina dorsale, senza anticorpi.

Calda, drogata, anarmonica. Un corpo che si muove in preda alle convulsioni, dove ogni tanto qualcuno cade a terra e non si rialza. E gli altri passano, filmano, scrollano.

Qualcuno dirà: “La città è viva, pulsa”.

Ma se il battito è una mazzata in faccia a un turista, se il pulsare è il delirio di ragazzi senza futuro e senza regole, allora questa non è vita. È agonia.

E noi, in tutto questo, siamo spettatori, vittime, oppure complici?




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