Avete presente Arthur Herbert Fonzarelli? Fonzie, proprio lui, il protagonista di Happy Days. Quando il meccanico, idolo dei giovani che si riunivano da Arnold’s, sbagliava, non riusciva mai e poi mai a chiedere scusa. A pronunciare le parole “ho sb…”. E si fermava lì. Pure a riprovarci: “Ho sb…” La lingua impastata e quelle parole che proprio non escono fuori.

Come ieri è successo a Luigi Di Maio. Due paroline magiche “partito” e “democratico” non sono proprio uscite dalla bocca del leader del Movimento 5 Stelle, subito dopo il colloquio con il capo dello Stato nell’ultimo giro di consultazioni al Quirinale. Per Luigi Di Maio ammettere davanti alle telecamere e ai giornalisti di aver aperto le trattative con il Pd è come per Fonzie ammettere di aver sbagliato. “Part… Dem…”. Proprio non gli riesce.

E non gli riesce perché Luigi Di Maio è più che consapevole che con la scusa del bene del paese, l’alleanza programmatica fra Pd e 5 Stelle per salvare legislatura e poltrone (hai voglia a dire che nessuno ha paura delle urne: la metà dei pentastellati non riuscirebbe più a essere rieletta, altrettanti nel Pd), la garantisce l’odiatissimo Matteo. Renzi ovviamente. Che detiene le quote di maggioranza della rappresentanza parlamentare fra i democratici.

Il “non detto” di Luigi Di Maio è stato rilevato e subito riportato al capo dello Stato, Sergio Mattarella dal suo portavoce Giovanni Grasso che è l’uomo in piedi (a sinistra dello schermo, per intenderci) dietro tutte le delegazioni e che ha il compito di vigilare che il resoconto degli esponenti di partito sia fedele a quanto verbalizzato durante i colloqui con il Presidente. A cui, qualcuno sostiene, di trattative in corso con la segreteria di Zingaretti, il ministro dello Sviluppo pare avesse parlato apertamente.

Ma davanti ai giornalisti, nada. Tanto che il presidente della Repubblica ha dovuto prendersi due ore prima di presentarsi alla stampa. Una irritualità nel ferreo cerimoniale del Quirinale che ha un senso profondo. Cosa sia accaduto in queste due ore non è dato sapere. Certamente i telefoni del Colle saranno stati accesi, accesissimi. Forse come anche i toni. Seppure con il rigore istituzionale a cui questo presidente resta sempre fedelissimo. Ed eccolo lì, a reti unificatissime intorno alle 20.03/04 di ieri sera, quando i Tg di tutte le reti erano appena iniziati. Si presenta davanti alle telecamere e pronuncia le prime chiare parole: “Con le dimissioni presentate dal Presidente Conte – che ringrazio, con i ministri, per l’opera prestata – si è aperta la crisi di governo, con una dichiarata rottura polemica del rapporto tra i due partiti che componevano la maggioranza parlamentare”.

L’avrà capito il messaggio? Gigi e Matteo (Salvini stavolta) l’avranno capito? Perché se Di Maio pensa di alzare la posta dettando i dieci punti del programma del prossimo governo convinto che Salvini sia spaventato dal perdere la poltrona del Viminale tanto da aver ceduto sull’incarico da premier proprio a quel Giggino su cui nel giugno dello scorso anno aveva posto il veto assoluto (da qui la comparsa all’orizzonte dello sconosciuto Giuseppe Conte), beh forse non ha fatto bene i calcoli. Perché Mattarella che non può certo impedire tout court la riedizione del governo gialloverde, chiederà la contropartita. Manovra da 50 miliardi in deficit? Ve la scordate. E a Matteo (Salvini) sicuro che convenga presentarsi ai suoi fan non riuscendo a soddisfare la sete di detassazione che agli italici elettori piace più della birra ghiacciata?

Un magma. Quella lava infuocata – che fosse dell’Etna o del Vesuvio – sotto la quale Salvini, quando era una giovane risorsa della Lega di Umberto Bossi, voleva vedere scomparire tutti i meridionali. La memoria è un dono. Ma a Sud difettiamo. Abituati come siamo a tutte le colonizzazioni. Perché come ci insegna Tancredi, nipote del principe Salina “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Basta cambiare padrone.

Concentriamoci, però. Senza divagare e senza rancori anche perché i motivi per non votare Salvini da Roma ladrona in giù sono anche altri e non solo gli insulti stupidi.

Adesso che succede: oggi i 5stelle incontrano i democratici che ieri per quelle paroline non pronunciate si sono incazzati e anche un bel po’. Anche se ai democratici è rimasto il tempo per ingaggiare lotte tutte interne degne del miglior tafazzismo. Taglio dei parlamentari no, taglio dei parlamentari sì. Pure l’oscura deputata Dem, Anna Ascani (a proposito per chi non lo sapesse è vicepresidente del Partito democratico) ha pensato bene di minacciare il suo segretario: “Se di fronte al rischio della destra così come ancora si presenta, con Salvini e Meloni in primissima linea, qualcuno nel Pd pensa di far saltare il banco di un possibile governo, istituzionale o di legislatura, sul taglio dei parlamentari, se ne assumerà la responsabilità di fronte al Paese e all’Europa”. Vabbè…

Che succede, dicevamo: dopo l’incontro “ufficiale” di oggi, avranno quattro giorni e mezzo di tempo (a partire da ora) per ragionare, riflettere, sintetizzare, rincontrarsi, stilare una lista di nomi. Riusciranno? Le premesse non ci sono: né in casa grillina né fra i democratici.

E Luigi e Matteo (Salvini)? Avranno il coraggio di ammettere ciò che è evidente? Che di rinunciare a questa legislatura non sono pronti entrambi? E quindi chiedere a Mattarella un supplemento eccezionale di pazienza e “scurdammoce ‘o passato” torniamo insieme?

Qualche giorno di attesa. Chi ha ferie faccia ancora i bagni a mare. Martedì prossimo ci aspetta un’altra lunga maratona televisiva. Altro che la Casa di Carta… O Happy days…

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