
Ciro Lomonte
Ciro Lomonte è nato a Palermo il 9 maggio 1960. Laureato in Architettura e appassionato di storia e arte della Sicilia, dal 2009 è docente del Master di II livello in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso l’Università Europea di Roma. Nel 2016 partecipa alla fondazione del Movimento Siciliani Liberi. E’ stato candidato a sindaco di Palermo alle elezioni amministrative del 12 giugno 2022 ed ha raccolto l’1,05% dei voti.
Il 15 luglio 1624 vennero ritrovati su Monte Pellegrino i resti mortali di Santa Rosalia. ’U Fistinu 2024 avrebbe dovuto essere una celebrazione adeguata ai 400 anni dalla ricorrenza. Invece è stato un intrattenimento di massa piuttosto fatuo, non contestualizzato nel nostro passato e nel nostro presente, con tanto di DJ, e come tale ha ricevuto pure un premio internazionale. Il 9 giugno 1625, dopo accurati accertamenti sui resti ossei trovati nella grotta del promontorio, si svolse la prima processione con le reliquie, poste nella seconda urna. Il dato di fatto, inoppugnabile, è che da allora in poi sparì definitivamente la peste da Palermo. Un dato di fatto che risulta inspiegabile dal punto di vista medico. È un vero e proprio miracolo. Avremmo voluto dare dignitoso risalto ai 400 anni dalla prima processione dell’urna, celebrando fra il 7 e il 9 giugno un Fistinu delle maestranze, che i tanti artigiani già coinvolti sono pronti a celebrare anche il prossimo 4 settembre. Per il momento di limitiamo a commemorare l’evento con alcune riflessioni che possano esserci utili per il presente e per il futuro.
Le due Rosalie
Da una certa epoca in poi sono stati associati a Rosalia i nomi di due fiori: rosa e lilium (giglio), che ritroviamo nell’iconografia colta della Santuzza. Potremmo dire che esistano nella devozione palermitana due Rosalie, una (il giglio) più autentica e popolare – tuttora persistente – precedente al ritrovamento delle reliquie ed una (la rosa) più aristocratica e macchinosa, successiva al 1624. In qualche modo la vicenda ci rimanda a quanto dice l’Antico Testamento parlando della Sapienza divina, descritta mentre si trova ludens in orbe terrarum. Si legge in Proverbi 8, 30-31:
allora io ero con lui come architetto
ed ero la sua delizia ogni giorno,
dilettandomi davanti a lui in ogni istante;
dilettandomi sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo.
È il sorriso di Dio, la cui logica ci appare spesso difficile da comprendere. Nel 1180, il Senato Palermitano (la Giunta Comunale di allora) edificò un tempio sotto il titolo di Santa Rosalia presso l’antro e presso la preesistente chiesa bizantina retta da monaci benedettini che avevano assistito spiritualmente la vergine durante gli anni dell’eremitaggio palermitano, dopo l’arrivo dalla Quisquina. Si dice che l’area in epoca sicano fenicia fosse nota come sede pagana di un piccolo santuario rupestre.
Sebbene non elevata canonicamente agli onori degli altari, Rosalia rappresentava in quegli anni un modello eroico di riferimento per la popolazione locale. L’arcivescovo Gualtiero Offamilio, in considerazione della diffusa devozione popolare (tenera, semplice, fiduciosa), effettuò solo una “canonizzazione episcopale”, limitata e riconosciuta territorialmente. L’inserimento nel martirologio romano avverrà solo con papa Urbano VIII il 26 gennaio 1630 dopo le ben note fasi del ritrovamento e del trasferimento delle reliquie in cattedrale, vicende subordinate al riconoscimento dell’autenticità delle stesse e del miracolo riconosciuto come cessazione della peste da parte dell’arcivescovo e cardinale Giannettino Doria.
Il canonico Antonino Mongitore, nelle sue opere, elenca svariati luoghi di culto cittadini dedicati alla figura di Rosalia, spesso legati alle vicende della sua vita. Il suo nome era menzionato nelle acclamazioni e invocazioni della liturgia. Atti notarili del 18 aprile 1257 sono le prime fonti scritte, documenti conservati presso gli archivi del monastero di S. Maria dell’Ammiraglio, detta la Martorana. L’attaccamento, la devozione, la venerazione, il culto subiscono un lento affievolimento, per riaffiorare timidamente nei momenti di maggior scoramento. L’eremo di Monte Pellegrino, unico tempio celebrativo superstite durante la peste del 1474, fu restaurato.
Le spoglie furono scoperte il 15 luglio 1624 grazie all’indicazione di una donna, Girolama La Gattuta, che, in fin di vita, aveva sognato S. Rosalia, che le aveva promesso la guarigione se fosse salita sul Monte Pellegrino per ringraziarla. La donna vi salì il 26 maggio 1624, e dopo aver bevuto l’acqua della grotta ed essersi sentita guarita, ebbe la duplice visione della Madonna e di S. Rosalia, durante la quale le fu indicato dove trovare le ossa della santa. Il 13 febbraio 1624, mentre la peste flagellava la città, il giovane Vincenzo Bonelli, disperato per la morte della moglie, sale sul monte intenzionato a suicidarsi. Fermato nell’insano proposito dalla visione della santa, ricevette indicazioni per fare una processione. Fu così che il 9 giugno 1625, durante il corteo religioso con le reliquie della santa, al canto del Te Deum Laudamus, la peste cessò e Palermo fu salva. Il Senato Palermitano, come segno di ringraziamento per la peste sconfitta, le dedicò il santuario attuale,
S. Rosalia, da allora patrona aggiunta della città di Palermo, gode di una venerazione unica, rinverdita e accresciuta nel cuore del popolo, tanto da essere chiamata affettuosamente dai palermitani ’A Santuzza. Numerosi sono i pellegrinaggi a lei dedicati in nome dei miracoli avvenuti al santuario e degli aiuti che per tradizione la santa avrebbe dato alla città. Numerosi sono i prodigi che le vengono attribuiti, come ad esempio l’acqua santa che sgorgherebbe direttamente dal santuario. Sul soffitto di roccia del santuario, infatti, si può osservare un peculiare sistema di raccolta dell’acqua attraverso delle canaline particolarissime. Alcune tradizioni attestano come quest’acqua fosse usata per guarire i fedeli e come talvolta abbia sconfitto mali incurabili.
Il 4 settembre, giorno di celebrazione della santa secondo il calendario liturgico, si svolge la tradizionale processione che consiste nella salita a piedi fino al santuario sul Monte Pellegrino. L’evento è infatti chiamato “l’acchianata”, la salita. Per chi ha ricevuto una grazia, è tradizione fare la faticosa ascensione avanzando in ginocchio, come segno di ringraziamento e venerazione per la Santa. Ancora oggi questa è pratica comune, così come quella di lasciare dei doni per Rosalia. Questa è la prima Rosalia.
La seconda Rosalia è quella ridipinta, prima ancora che da Antoon Van Dyck e da altri artisti, dalla agiografia aulica successiva al 1624. Protagonista principale fu il rettore del Collegio Massimo dei Gesuiti, p. Giordano Cascini, che scrisse un’opera riccamente illustrata proprio con le incisioni di Van Dyck, nella quale si descrivono minuziosamente le vicenda di Rosalia, dalla nascita presso la corte degli Altavilla, nel fiorente Regno parlamentare di Sicilia, fino alla vita eremitica, prima alla Quisquina poi a Monte Pellegrino. All’opera del Cascini fanno riferimento i teatrini di quel capolavoro dell’oreficeria palermitana che è l’urna di S. Rosalia, realizzata nel 1631 su commissione del Senato Palermitano. Anche i giorni tradizionali del Festino (10-15 luglio), con le due serie di festeggiamenti – una a carico della Arcidiocesi di Palermo, l’altra organizzata dal Senato Palermitano – traevano spunto dalle ricostruzioni del gesuita. A metà luglio Palermo si trasformava pertanto in un grande teatro all’aperto. All’organizzazione partecipavano attivamente le cosiddette maestranze (le corporazioni di artigiani che ebbero vita fiorente fra il XV e il XIX secolo). Rosalia veniva presentata come una icona della palermitanità e ’u Fistinu era la celebrazione dell’orgoglio palermitano.
La terza Rosalia
Nel 1783, con il pretesto di ristrettezze economiche della pubblica Amministrazione, il viceré di Sicilia, Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina, decretò che i cinque giorni si riducessero a tre. Fu come una scintilla scoccata sulla polveriera. Il Senato e la cittadinanza, indispettiti, protestarono vivacemente ed uno dei tanti cartelli attaccati per le strade minacciava: “O festa o testa!”. Il Senato mandò a Napoli, a Ferdinando di Borbone (in quanto Re di Sicilia), un memoriale del Segretario del magistrato della città, Don Emanuele La Placa, al fine di annullare quel decreto. La risposta arrivò a pochi giorni dall’inizio del Festino: il re annullava il decreto del viceré Caracciolo. Questi si consolò pensando che non ci fosse il tempo per costruire un nuovo Carro. Non fu così: si centuplicarono le braccia, si lavorò di giorno e di notte e nelle prime ore pomeridiane dell’11 luglio il Carro saliva glorioso e più glorioso ancora tornava la sera del 14 a Porta Felice tra le grida di gioia e di scherno nei confronti del viceré. E i giorni del Festino continuarono ad essere cinque.
Fu quello il primo tentativo di un uomo delle istituzioni, noto massone formatosi a Parigi, di ostacolare la manifestazione più eclatante della fierezza palermitana. Poi nel 1860 venne Garibaldi, che ne impedì lo svolgimento con il pretesto delle barricate e delle macerie che occupavano via Toledo. Bisognerà attendere il 1974 perché si cercasse di riproporre il Festino per quello che è, con una ricostruzione filologica attenta da parte dell’architetto coreografo Rodo Santoro. Non era esattamente il Festino dei palermitani, ma il tentativo era quello di farlo risorgere gradualmente. Infine venne l’epoca di Leoluca Orlando, quella delle numerose operazioni rutilanti per mortificare la città omologandola alle derive della globalizzazione, con il pretesto del respiro internazionale. Il Festino da allora è stato una pantomima del carnevale in cui S. Rosalia viene ridotta ora a mito mediterraneo, ora a modello di multiculturalità ed inclusione, ora ad icona pop. Davvero triste. Prima la sfilata del carro era una navigazione nei marosi dei mali dell’umanità, protetti dall’intercessione di S. Rosalia.
La terza Rosalia è pertanto quella della mistificazione di una realtà storica. Restano alcuni che non si rassegnano e organizzano la resistenza dei palermitani autentici. Ma questi in fondo sono minoranza, perché la capitale siciliana è una metropoli (la quinta dello Stato Italiano) abitata in prevalenza da immigrati provenienti da altri paesi e città della Sicilia stessa. Al momento è ancora debole il sentimento identitario, perché sono numerosi quelli che non conoscono e neppure amano le radici ancora rigogliose di questa terra.
Pare che l’etimologia del nome greco di Palermo non sarebbe legata al suo grande porto (Pan-ormos, tutta ormeggio), bensì ad ormos nel senso di monile (tutta gioiello), che si rifà al nome fenicio Sys. In questo senso Conca d’Oro è un’espressione ancora più evocativa di un luogo che ha prodotto nei suoi tre millenni di vita cittadini meravigliosi e opere preziose. Comprendere cosa rappresenti Rosalia per Palermo non è un mero esercizio intellettuale. È gettare le fondamenta solide per una rinascita prodigiosa.


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