Giusi Patti Holmes
Sono Giusi Patti Holmes, giornalista, scrittrice e, soprattutto, un affollato condominio di donne, bizzarre e diversissime tra loro, che mi coabitano. Il mio motto è: "Amunì, seguitemi".
Oggi vi racconto un tragico evento che funestò, nei primi anni del ‘900, due famiglie aristocratiche palermitane. Vittima di un efferato omicidio fu Giulia, figlia della Principessa Giovanna Filangeri e di Lucio Mastrogiovanni Tasca, che a diciotto anni sposò il conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia da cui ebbe Clementina e Giovanna.
Chi era Giulia?
Giulia era una ragazza molto bella e ammirata, innamoratissima del marito, amica di donna Franca Florio e assidua frequentatrice delle sue feste. Giovanissima sposò Romualdo e il loro amore non ebbe scalfitture per dieci anni fino a quando non scoprì che il marito la tradiva con un’attrice della compagnia di Scarpetta. Da quel momento un profondo dolore e un grande desiderio di rivalsa si impadronirono, giustamente, di lei. In quegli anni a Palermo, diventata importante meta europea, furoreggiavano i grandi ricevimenti che i Florio, un’istituzione per l’Isola, tanto che la capitale siciliana veniva soprannominata “Floriopoli”, organizzavano nella loro villa dell’Olivuzza o nei saloni di Villa Igiea, l’albergo di lusso di cui erano i proprietari. Fu durante una di queste occasioni mondane, in una calda sera d’agosto del 1909, che Giulia incontrò il barone Vincenzo Paternò del Cugno, aitante tenente di cavalleria, di due anni più giovane di lei, viveur e tombeur de femmes dai modi galanti, sempre alla ricerca di denaro in quanto ossessionato dalle scommesse ippiche, che ben celava un temperamento aggressivo e violento.
Giulia e Vincenzo, una liaison dangereuse
Giulia e Vincenzo iniziarono una liaison dangereuse appassionata e travagliata, fatta di mille escamotage per vedersi e di liti furibonde, per la gelosia patologica di lui, da cui scaturivano frequenti rotture e, altrettante, frequenti riappacificazioni. Nonostante la segretezza degli incontri, nacquero pettegolezzi e vennero recapitate lettere anonime a palazzo Trigona che scatenarono l’ira del fedifrago Romualdo che, dopo paurose scenate e atti di violenza fisica, scacciò da casa la moglie per una passione che, al contrario della sua, non era stata esibita spudoratamente. Passato del tempo, e su insistenza dei parenti, come fosse un pacco, la riprese con sé con la promessa, non mantenuta, di interrompere la storia con Paternò. Giulia, in realtà, covava in cuor suo l’idea di separarsi dal marito e andare a vivere con l’amante. Proprio per poter fare questo passo, che le avrebbe garantito la libertà, aveva deciso di vendere un feudo. Vincenzo, dal canto suo, lasciato l’esercito, le aveva proposto come consulente il cognato, l’avvocato Serrao.
La regina Elena
Fu la regina Elena che, per cambiare il corso degli eventi e tentare una riconciliazione, convocò gli sposi, annunciando loro che si sarebbero dovuti trasferire al Quirinale in quanto Giulia sarebbe stata sua prima dama d’onore e Romualdo, gentiluomo di Corte Reale. La giovane nobildonna, però, ormai logorata e sempre più ferma nella decisione di lasciare entrambi, su consiglio dell’avvocato Serrao, aveva vincolato la disponibilità della somma, ricavata dal feudo, per evitare che finisse nelle mani di Vincenzo Paternò. Quando questi lo venne a sapere, rabbioso e inferocito, recatosi al Quirinale, ebbe uno scontro furibondo con il cognato accusato di aver tramato alle sue spalle. Richiamata dalle grida dei due uomini, Giulia uscì dalla sua stanza ma, mentre lei cercava di calmarlo, lui, ricoprendola di insulti, le strappò dal collo la catenina con la medaglia, raffigurante San Giorgio, che portava incisa la data del loro primo incontro, 11 agosto 1909, che le aveva regalato come pegno d’amore.
L’ultimo appuntamento, quello con la morte
Vincenzo Paternò del Cugno, resosi conto che Giulia voleva troncare la loro relazione, preda di un’ossessione amorosa che gliela faceva immaginare fra le braccia del cognato, l”avvocato Serrao, riuscì a convincerla a vedersi un ultima volta all’Hotel Rebecchino, a Roma, non lontano dalla Stazione Termini, alle 12 del 2 marzo 1911. L’uomo, nella sua mente, aveva già chiaro il suo piano criminale tanto che, lungo la strada, che lo conduceva all’appuntamento, aveva fatto una breve sosta in un negozio di armi, in via dei Crociferi, per acquistare un coltello da caccia grossa. Quel giorno, quando Giulia arrivò in albergo, non immaginava certo che da lì a poco la sua vita sarebbe stata spezzata. Salita in camera, come aveva fatto tante altre volte, felice di riappropriarsi della sua libertà, girate le spalle all’uomo, che aveva amato, capì ciò che stava avvenendo solo quando, colpita e ferita, sentendosi trascinare sul letto, lesse con orrore la fine nei suoi occhi, ancor prima di vedergli sollevare la mano che le avrebbe sferrato le due mortali coltellate alla gola. Aveva appena 29 anni.
La macabra scoperta
Fu una cameriera che passava nel corridoio che, insospettita dalle grida soffocate che giungevano dalla camera n.8, spiando dal buco della serratura, vide un uomo che brandiva un coltello e colpiva, ripetutamente, una donna per, poi, afferrare la pistola e fare partire un colpo contro se stesso. La macabra scena che si presentò agli occhi di chi accorse, richiamato dallo sparo, fu agghiacciante: una donna sgozzata e abbandonata sul letto, un uomo gravemente ferito e sul pavimento, in un lago di sangue, sparpagliate, più di cento lettere che Giulia aveva scritto a Vincenzo: “Nel tuo affetto ho trovato tutte le dolcezze, tutte le consolazioni che credevo perdute per sempre!“. Queste le sue ultime parole per quella illusione d’amore in cui avrebbe trovato la morte. Il conte Paternò del Cugno, soccorso immediatamente, sopravvisse e venne accusato di omicidio premeditato.
L’istruttoria
Nel corso dell’istruttoria il suo difensore ne invocò la semi-infermità mentale, chiedendo di sottoporlo a perizia ed elencando le malattie sofferte dall’imputato che gli avevano fiaccato la mente e il corpo. Il 24 ottobre 1911 l’assassino fu mandato nel manicomio giudiziario di Aversa e affidato al Professore Filippo Saporito, illustre alienista e direttore dell’istituto. Il risultato della perizia sconfessò la tesi della difesa e Paternò, descritto da Saporito come “un volgare simulatore”, fu trasferito a “Regina Coeli”, il carcere romano. Il processo, che si aprì il 17 maggio 1912 presso la Corte d’Assise di Roma, vide le piccole figlie di Giulia e Romualdo, Giovanna e Clementina, costituirsi parte civile. La Corte, il cui verdetto fu pronunciato la sera del 28 giugno dello stesso anno, non credendo alla volontà suicida dell’imputato, lo condannò alla pena dell’ergastolo. Trent’anni dopo, nel 1942, Vincenzo Paternò, a 62 anni, ricevette la grazia e riacquistò la libertà. Morì nel 1949.
Una storia salita agli altari della cronaca nera
Questa storia fece così clamore che, a Roma, nacquero diverse ballate popolari, in Sicilia fu fatta conoscere dai cantastorie e in Europa tutti i giornali le diedero un grande rilievo. Questo femminicidio “ante litteram”, inoltre, è stato rievocato nel libro “Le pietre dello scandalo”, di Antonio Velani; nello sceneggiato televisivo della Rai “Il delitto Paternò”, del 1978, con Delia Boccardo e Lino Capolicchio; in un romanzo fanta-politico “Un ventaglio Blu Savoia”, della giallista Adriana Brown e nel libro “Un fitto mistero, Immagini e storie del crimine” del magistrato-scrittore Giancarlo De Cataldo, che contiene uno scatto di Giulia di Mario Nunes Vais, grande ritrattista fiorentino, che gliene fece ben 11, tutti conservati nell’Archivio fotografico del Ministero dei Beni Culturali.
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