Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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In un Paese che da decenni vive sospeso tra entusiasmi improvvisi e crisi ricorrenti, tra leadership effimere e derive populiste, il ritorno alle radici di Forza Italia, celebrato a Telese durante la Festa della Libertà, appare come un atto politico e simbolico di grande rilievo. 

Non un semplice raduno elettorale, ma la riaffermazione di una identità che si vuole storica, radicata nella tradizione del liberalismo europeo e del riformismo italiano.

Antonio Tajani, oggi segretario, non è figura carismatica nel senso mediatico a cui la politica degli ultimi anni ci ha abituato. 

Non urla, non insulta, non fa della provocazione la propria cifra. 

Ma proprio per questo la sua presenza assume il significato della stabilità silenziosa, quella che non accende i titoli sensazionalistici ma garantisce continuità e responsabilità nelle istituzioni. 

È il filo che unisce l’esperienza berlusconiana con le culture politiche precedenti: il cattolicesimo democratico di De Gasperi, il socialismo riformista di Craxi, il liberalismo europeo.

Non è un caso che Tajani abbia evocato un Pantheon in cui convivono figure come Thatcher, Giovanni Paolo II, Carlo Acutis e Alcide De Gasperi. 

Si potrebbe obiettare sulla disomogeneità, ma il messaggio è chiaro: Forza Italia non intende rinchiudersi in un recinto identitario, bensì proporsi come cerniera della democrazia italiana, un luogo dove moderazione e modernità possano incontrarsi.

La politica italiana, da anni, sembra oscillare tra due estremi: da un lato il populismo che alimenta la rabbia, dall’altro il tecnicismo che pretende di governare senza popolo. 

Forza Italia cerca di riprendere la strada maestra di un liberalismo popolare, fatto di dialogo e di radici storiche. 

Nel linguaggio di Tajani non c’è traccia di estremismo, ma la consapevolezza che senza equilibrio, senza moderazione, la nostra fragile democrazia rischierebbe ancora una volta la deriva.

Il gesto simbolico di un segretario che si concede il ballo accanto a Mogol, tra leggerezza musicale e gravità politica, racconta molto più di quanto sembri: Forza Italia non vuole essere il partito della paura o del rancore, ma quello della libertà serena. 

“Ci attaccano perché cresciamo”, ha detto Tajani. Una frase che racchiude la convinzione che, in un’Italia smarrita, proprio la scelta della misura e del realismo politico possa tornare ad avere consenso.

Non è certo un compito facile. Forza Italia dovrà dimostrare di saper attrarre nuove energie, rinnovarsi senza tradire la propria tradizione, radicarsi nei territori con la stessa forza con cui negli anni Novanta seppe intercettare l’Italia che non voleva arrendersi al declino. Ma se saprà farlo, potrà assumere un ruolo decisivo: quello di forza di garanzia, in grado di stabilizzare il sistema e impedire che l’Italia cada in un eterno gioco al massacro.

La democrazia, diceva Norberto Bobbio, vive di equilibri, di mediazioni, di rispetto delle regole. In questo senso Forza Italia — erede di un berlusconismo ormai consegnato alla storia ma non dimentico della sua funzione fondativa — ha oggi l’opportunità di essere l’architrave discreta ma indispensabile del nostro sistema politico.

In un’Italia che cambia troppo in fretta e troppo spesso, il moderatismo liberale di Tajani e del suo partito può apparire quasi anacronistico. Eppure, proprio per questo, può essere la risposta più moderna: la stabilità come valore politico, la libertà come orizzonte, l’Europa come casa comune.

E così, nel Sannio, non si è celebrata soltanto una festa di partito. Si è affermato, forse, un principio più grande: che senza Forza Italia, senza quella cultura della responsabilità che unisce tradizione cattolica, spirito europeo e riformismo liberale, la politica italiana rischierebbe di smarrire ancora una volta la sua bussola.

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