Antonio Perna
Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet
Nel sogno di una società che sapesse finalmente congiungere il pensiero umano con la fredda materia della macchina, ecco compiersi un passo avanti che pare di fantascienza e, invece, è reale.
Noland Arbaugh, trentunenne del profondo Arizona, è diventato — nel gennaio del 2024 — il primo essere umano di questo pianeta a portare dentro di sé un impianto cerebrale, piccolo ma portentoso.
Implantato presso il Barrow Neurological Institute di Phoenix da un braccio robotico, ha restituito a Noland un traguardo prima inimmaginabile: muovere un cursore, scrivere, giocare, aprire porte digitali, tutto senza un solo gesto fisico. Solo il pensiero, che diventa azione.   
Il suo racconto, dolce e persino lirico, ci restituisce un’immagine che varca la distanza della disabilità per restituire dignità e speranza: «I feel like I have potential again», dice, e non è retorica ma parola urgente di chi ha riacquistato la capacità di muoversi nella vita: studia, gioca a Mario Kart, però online, compone mosse su una scacchiera virtuale, naviga nel sapere, e guarda al futuro non come a un déjà-vu, ma come una porta spalancata.   
Eppure, questa storia non ha la purezza di un romanzo edulcorato, ma quella – ben più vera – della fatica reale dopo il dramma dell’incidente nel 2016 che lo ha paralizzato.
Qualche settimana dopo l’intervento, avvenuto 18 mesi fa, l’85 % dei sottilissimi fili dell’impianto si ritrae: l’impianto perde potenza, il controllo vacilla. Noland non ne parla subito, ritiene che esporsi in quel momento non sarebbe prudente, avrebbe potuto vanificare la possibilità di futuro nella ricerca. Neuralink lavora alla risoluzione del problema, lo calibra, e l’autonomia ritrova vigore.   
In questo crocevia tra uomo e macchina, tra osare e temere, fra fiducia e rischio, Noland rivendica la sua umanità: «Tecnicamente sono un cyborg, eppure mi sento un uomo normale». Una frase che pesa come pietra su un terreno ancora fragile, ma rifulge come monito: non di un superuomo vorremmo scrivere, ma di un uomo che si redistribuisce.
Ecco, quindi, la parabola di questo nostro tempo: l’impianto non è un’alienazione, ma una confessione di fiducia — nella scienza, nella tecnologia, e soprattutto nel cuore umano che osa ritrovarsi.
Di un’umanità che resiste all’immobilità, ma non si disfa nella corsa al nuovo.
Noland Arbaugh insegna, con semplicità e coraggio, che la rivoluzione non è nella velocità dell’algoritmo, ma nella tenacia dello sguardo: restituire al corpo ciò che la carne aveva negato, concedendo un respiro nuovo alla mente.
Ecco, in definitiva, la rivoluzione: non l’uomo-preda della macchina, ma l’uomo che attraverso la macchina si ritrova, più libero, più pensante, più se stesso.
Questo contenuto è stato disposto da un utente della community di BlogSicilia, collaboratore, ufficio stampa, giornalista, editor o lettore del nostro giornale. Il responsabile della pubblicazione è esclusivamente il suo autore. Se hai richieste di approfondimento o di rettifica ed ogni altra osservazione su questo contenuto non esitare a contattare la redazione o il nostro community manager.


Commenta con Facebook