Salvatore Zichichi

Salvatore Zichichi è un medico per devozione, mente innovativa e nerd, crede nelle relazioni umane come leva per trasformare la sanità e la realtà.

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La notizia dell’aggressione a un infermiere e a una guardia giurata all’Ospedale Cervello scuote profondamente.
Da medico e da uomo.

Più che un semplice fatto di cronaca, per chi ogni giorno vive la medicina, è un colpo al cuore, tra le mille voci di colleghi e professionisti che in mezzo alle strorture di un sistema che non si è adeguato cercano sempre di fare del loro meglio. Di fare bene il proprio lavoro.

L’ospedale come qualsiasi altro luogo in cui la Cura si esprime, non dovrebbe mai essere teatro di rabbia, ma spazio di fiducia.
Di umanità. Con tutte le sue sfaccettature belle e meno belle.
Umanità.

Chi lavora nella sanità lo sa: entriamo nella vita delle persone spesso nel momento più fragile.
Il momento del bisogno. Dell’attenzione.
Chi si affida ciecamente speranzoso, chi ti consegna il familiare amato e chi con sguardo pieno d’amore ti mette tra le braccia l’ultimo della famiglia arrivato.

Curare non è solo fare diagnosi o prescrivere farmaci.
È accogliere. Ascoltare. Sostenere. Sentire.
Anche quando il tempo è poco e le risorse mancano.
Anche quando la stanchezza si fa sentire.
Ma consapevole che tempi e biologia non aspettano nessuno.
Ed una tua pausa di troppo, una distrazione è fonte di disagio e talvolta sofferenza dall’altro lato.
E con questo sentire, cerchi sempre di dare il meglio. 

Ma qualcosa si sta incrinando. O ormai si è proprio già incrinato.
Bisogna ricostruire.

Sento che stiamo perdendo, a poco a poco, il senso di una relazione che per secoli ha tenuto insieme medico e paziente.
Non più autorità da una parte e obbedienza dall’altra, ma alleanza. Un patto basato sulla fiducia reciproca, sul rispetto.
Sull’onestà di dire la verità, anche quando fa male, e sulla responsabilità di prendersi cura, anche quando è difficile.
Sulla voglia di sapere che si è fatto del proprio meglio.
Poter dormire sonni sereni.

Ci sono dei principi, sì. Come l’autonomia,  la giustizia, il “primum non nocere”.
Sono fondamenta importanti.
Ma da soli non bastano.

Serve rimettere al centro le persone.
Non i numeri. Non le cartelle.

 
Le persone.
Quelle che hanno paura. Quelle che soffrono.
Quelle che sbagliano, a volte.
E anche noi, professionisti della cura, siamo persone.
Non strumenti. Non nemici.
Abbiamo amori, speranze, sogni e problemi da risolvere ogni giorno come tutti quanti. 

La medicina ha bisogno di tornare a essere umana.
Non c’è tecnologia che possa sostituire uno sguardo sincero.
Non c’è algoritmo che possa capire il silenzio di chi non riesce a chiedere aiuto.

La mia è una voce come tante.
Ma oggi, davanti a questo ennesimo fatto mi sento di volerla esprimere, voglio usarla per dire che non dobbiamo abituarci.
Che non è normale aggredire chi si prende cura.
Che non può esistere cura senza rispetto.

Abbiamo bisogno di ritrovare il senso profondo della nostra vocazione.
Di ricordare, come diceva Ippocrate, che il medico deve prima di tutto essere uomo.
E che ogni paziente è una persona, mai un numero.

Torniamo a guardarci negli occhi.
Torniamo a parlarci, davvero.
Perché solo così possiamo curare, insieme.
E ricostruire una alleanza degna di essere vissuta che ci permetta di guardarci negli occhi con soddisfazione e speranzosa voglia di fare.

Non possiamo permettere che la nostra Umanità venga trasformata in una lotta che non vede ne vincitori, ne vinti. 
Servono soluzioni nuove per problemi ormai noti. Serve tornare a contatto con la gente, ricercando il tempo ed il piacere del dialogo. 

Tempo che troppo spesso, nelle nostre vite è stato depauperato da ritmi incessanti e continuativi che ci tolgono il tempo di respirare, pensare e ripensare a percorsi nuovi comprensivi e fermamente risolutivi. 

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