Niente revisione del processo, resta confermata la pena dell’ergastolo per l’imprenditore di Riesi Stefano Di Francesco. La corte d’appello di Catania ha detto “no” ad una riapertura del dibattimento, chiuso 5 anni fa in cassazione con la condanna in via definitiva per il presunto autore del delitto del figlio Francesco di 31 anni. Adesso il legale dell’imputato, Vincenzo Vitello, fa ricorso in cassazione.

I motivi del ricorso

Il legale di Stefano Di Francesco ha rilanciato nuovi potenziali fatti, a cominciare da una informativa secondo cui il delitto sarebbe stato commesso dalla mafia di Riesi. Ipotesi collegata al fatto che l’imprenditore non si sarebbe piegato alla richieste di pizzo. Inoltre, sempre secondo la tesi difensiva, la ricostruzione del delitto sarebbe “approssimativa”. In 5 minuti si sarebbe architettato un tentativo di depistaggio del delitto e quindi i tempi non sarebbero congrui.

Le prove

L’uomo fu condannato all’ergastolo perché ritenuto responsabile dell’omicidio del figlio Piero, ucciso il 9 gennaio 2012. Tra le prove su cui la Procura nissena ha basato la sua tesi alcune intercettazioni ambientali realizzate con microspie nascoste sulla tomba della vittima. Fu qui che Stefano Di Francesco fu protagonista di uno sfogo-confessione. Secondo l’accusa l’imputato colpì il figlio alla testa, nel corso di una lite, con un oggetto contundente. Credendolo morto caricò il corpo su una vecchia auto aziendale alla quale diede fuoco e poi simulò un tentativo di soccorso gettando della terra sull’auto in fiamme con un escavatore.

Il movente

Il movente dell’omicidio sarebbe da ricercare nei contrasti tra padre e figlio per la gestione dell’azienda di famiglia. L’uomo avrebbe confessato il delitto, accusando la vittima di essere la causa di tutto: “Guarda cosa mi hai fatto fare…”, diceva non sapendo che sulla tomba i carabinieri di Caltanissetta avevano posizionato una microspia. Grazie alla microspia gli investigatori hanno raccolto quella che loro ritengono sia una sorta di confessione del padre della vittima che si era recato al cimitero e davanti alla lapide del figlio avrebbe iniziato a parlare come se si rivolgesse al figlio, dicendo “guarda cosa mi hai fatto fare”.

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