Blitz antimafia tra Catania e Agrigento. Su delega di questa Procura Distrettuale etnea, oltre 100 carabinieri hanno dato esecuzione ad un decreto di fermo nei confronti di 9 persone nell’ambito dell’operazione denominata Leonidi.

Accusati di associazione a delinquere di tipo mafioso

Alcuni degli arrestati sono legati anche da vincoli di parentela ad esponenti di vertice della famiglia “Santapaola-Ercolano”. Tutti e nove sono accusati di associazione di tipo mafioso, detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente, detenzione e porto illegale d’arma da fuoco, con l’aggravante di aver commesso il fatto con la finalità di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa di appartenenza.

Indagini avviate nel maggio dello scorso anno

L’odierno provvedimento è frutto di una indagine avviata nel maggio dello scorso anno, coordinata dalla procura di Catania e condotta dai carabinieri del Nucleo Investigativo del comando provinciale. È emersa la pianificazione, in stadio avanzato, dell’omicidio di Pietro Gagliano (indicato nelle conversazioni degli indagati come appartenente al contrapposto clan “Cappello – Bonaccorsi”) da parte di alcuni personaggi di spicco dell’associazione mafiosa “Santapaola-Ercolano”.

In particolare, il progetto sarebbe stato originato da quanto accaduto la sera del 21 ottobre scorso nella zona del “Passereddu”, ovvero nel quartiere San Cristoforo, ove – all’esito di una discussione tra appartenenti ai citati sodalizi – Pietro Salvatore Gagliano avrebbe esploso 4 colpi di arma da fuoco all’indirizzo di appartenenti alla famiglia di Cosa Nostra catanese.

L’attentato pianificato

Due di questi ultimi, rimasti illesi, si sarebbero immediatamente determinati a porre in essere una vendetta armata al fine punire l’affronto subito, nonostante indicazioni di segno contrario provenienti da altri esponenti del sodalizio investigato.

“Emblematico – si legge nella nota – in tal senso il ruolo di Sebastiano Ercolano, solo 20 anni, figlio di Mario Ercolano, condannato all’ergastolo per omicidio, e nipote di Aldo (anch’esso detenuto, in espiazione di condanna per associazione mafiosa emessa a seguito del processo nato dall’operazione di polizia cosiddetta “Dionisio”). Entrambi i fratelli, Mario ed Aldo, sono cugini del più noto Aldo Ercolano (detenuto all’ergastolo per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava), a sua volta figlio di Giuseppe Ercolano, sposato con Grazia Santapaola, sorella di Benedetto, capo storico della famiglia”.

Secondo quanto emerso nelle indagini, Sebastiano Ercolano, per lavare l’onta subita e riaffermare la “credibilità” della famiglia di Cosa Nostra etnea, sarebbe stato uno degli ideatori ed organizzatori del progetto, spingendosi sino ad effettuare un sopralluogo presso l’immobile ove si nascondeva Gagliano, onde valutare in prima persona il miglior modus operandi che avrebbe garantito agli esecutori materiali di poter colpire senz’altro la vittima e, in tempi brevissimi, fuggire dai luoghi, eliminare tracce di residui di arma da sparo, quindi recarsi presso un locale notturno in modo da precostituirsi un alibi.

Nel complesso, l’attività investigativa, condotta e finalizzata grazie ad attività tecnica e ai serrati riscontri sul territorio, sarebbe riuscita a dimostrare il tentativo degli indagati di riorganizzare gli assetti dei gruppi dell’associazione mafiosa “Santapaola – Ercolano”, duramente colpita nel tempo dall’incessante azione repressiva della magistratura e delle forze di polizia.

Armi e droga

Il giovane Sebastiano Ercolano, rampollo rampante della famiglia mafiosa, avrebbe cercato di prendere le redini dell’associazione, sempre più concentrata a reperire sia le risorse finanziarie (dando nuovo slancio ai business criminali, derivanti per lo più dall’attività di spaccio di ingenti quantità di cocaina, hashish e marijuana), sia le armi necessarie a rafforzare la capacità d’intimidazione e a contrastare le consorterie rivali, così come ampiamente documentato dall’indagine.

Allarmante il numero di armi nella disponibilità degli indagati, la capacità degli stessi di munirsi di sempre nuove armi più performanti e l’esistenza di un mercato assolutamente fiorente e trasversale in quanto capace di soddisfare la domanda di tutti i sodalizi mafiosi, senza differenze di clan.

Nel corso dell’attività di indagine è emersa più volte una netta distinzione tra l’azione della “vecchia mafia”, dei “grandi” (ovvero dei sodali più anziani e di risalente affiliazione), da un lato, e l’azione della “mafia giovane”, spregiudicata, irruente, avvezza alla esibizione di status symbol sui social e alla vita gaudente, dall’altro.

È emersa in particolare la posizione di Davide Enrico Finocchiaro, sospettato di essere responsabile dello storico gruppo del Villaggio Sant’Agata, che avrebbe più volte rivendicato con orgoglio la propria appartenenza a Cosa Nostra catanese anche in quanto espressione di un gruppo “insignito di medaglie” ovvero “i morti, gli ergastolani”, volendo alludere ai sodali uccisi e agli omicidi commessi dal gruppo, così involontariamente ribadendo e confermando che il credito mafioso derivava in primis dalla potenza militare, dalla capacità di uccidere, dalla capacità di affrontare il carcere e scontare l’ergastolo, senza farsi fiaccare dalla carcerazione e, soprattutto senza collaborare con la giustizia.

Le indagini hanno consentito inoltre di apprezzare le interazioni tra vari gruppi della famiglia di Cosa Nostra etnea nonché tra i suddetti gruppi e i clan antagonisti, rivelando in più momenti gravi fibrillazioni caratterizzate anche da una “corsa alle armi”.

I nomi dei fermati

I nove fermati sono: Salvatore Assinnata, di 51 anni, Giuseppe Cultrato, di 53, Sebastiano Ercolano, di 20, Davide Enrico Finocchiaro, di 38, Salvatore Finocchiaro, di 48, Salvatore Pietro Gagliano, di 26, Salvatore Poidomani, di 52, Antonino Razza, di 37, e Samuele Romeo, di 24.

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