Malumore, frustrazione e delusione. Sono i sentimenti maggiormente diffusi tra i 150 migranti su nave Diciotti della Guardia costiera ormeggiata da tre giorni nel molo di Levante del porto di Catania. Quando ieri sera sono scesi i 27 minorenni non accompagnati hanno sperato che fosse arrivato anche il momento di sbarcare anche per loro. Ma quando la passerella è stata ritirata l’amarezza è stata tanta. A raccontare gli stati d’animo di “persone che hanno iniziato a fuggire da fame, guerre e persecuzioni da più anni”, e che vedono bloccata la fine del loro ‘viaggio dalla speranza’ a poche decine di centimetri dalla ‘nuova vita’ è Federica Montisanti di Intersos, presente su nave Diciotti nell’ambito di un progetto dell’Unicef. E’ stanca anche lei, provata dal lungo viaggio e stremata dall’attesa, ma ha rifiuto il cambio a bordo del pattugliatore della guardia costiera per conto della Ong perché vuole rimanere “fino a quando non saranno scesi tutti”. E teme tempi lunghi. “Sono sfiduciati – spiega – e vedere persone che conoscono li aiuta, con ‘volti’ nuovi sarebbe più difficile”. Li aiuta molto la loro fede. Pregano molto. I più numerosi sono eritrei e sono cristiani ortodossi. “Ieri – racconta la volontaria di Intersos – era la ricorrenza di una festività di cristiani ortodossi che prevede di bere del tè alla fine della funzione. La bevanda è stata distribuita a tutti i presenti anche ai musulmani e ai cattolici protestanti. La fede li aiuta molti, ma la speranza sembra stia per finire”.

A bordo, spiega Montisanti, “il tempo passa lentamente ed è difficile spiegare ai migranti, che voglio scendere il prima possibile, perché non li fanno sbarcare. C’è stato un forte abbassamento dell’umore, che sfiora la depressione, nonostante il grande lavoro del personale a bordo, a partire dalla guardia costiera”. Un esempio esplicita il quadro delle emozioni dei migranti della Diciotti: “Quando il gruppo antirazzista ha organizzato un’iniziativa nei loro confronti con un gommone – rivela Federica Montisanti – l’hanno seguita quasi con disinteresse. Vogliono scendere e hanno paura che ciò che non avvenga”.

Colpisce anche il racconto di una psicologa di Medici senza Frontiere Nathalie Leiba che ha ascoltato la testimonianza dei minori sbarcati: “Uno di loro non riusciva a vedere bene, aveva le pupille dilatate, mi ha raccontato di essere stato detenuto al buio per un anno” e “un altro aveva male alla spalla perché gli hanno sparato i trafficanti”.

“Questi bambini sono sopravvissuti alla Libia e a un terribile viaggio in mare, come tutte le persone bloccate da giorni a bordo” aggiunge Medici Senza Frontiere che chiede ancora una volta alle autorità italiane di permettere lo sbarco e l’accesso alle cure a tutti loro. I team medici e psicologici di MSF offrono supporto psicologico agli sbarchi in Sicilia e operano in vari centri di accoglienza secondaria in Sicilia.

“Ieri notte sono stata al porto di Catania per prestare un primo soccorso psicologico ai minorenni che sono sbarcati dalla nave Diciotti” racconta in un video Natalie. “Ho trovato i ragazzi molto stanchi, esausti, erano anche confusi: avevano capito che a bordo c’era stato un problema, ma non avevano capito esattamente di cosa si trattasse. I ragazzi erano eritrei e tra loro – spiega – c’erano dei casi particolarmente vulnerabili. Ci hanno raccontato le loro storie e quello che avevano passato in Libia. La maggior parte di loro ci hanno raccontato di periodi di detenzione molto lunghi, superiori ad un anno in cui hanno subito violenze fisiche e maltrattamenti”. In particolare ci sono due situazioni di minori che hanno particolarmente impressionato Natalie. “Uno non riusciva a vedere bene – racconta la psicologa di Msf – continuava ad aggiustare gli occhi a livello della luce, aveva le pupille molto dilatate. Mi ha spiegato che è stato un anno detenuto al buio subendo vessazioni e torture, mentre i libici lo costringevano a telefonare alla famiglia in cambio di denaro. L’altro ragazzo è stato invece ferito alla spalla. I trafficanti stavano litigando per chi avrebbe dovuto rapire questo gruppo di cui faceva parte e gli hanno sparato. Aveva 15 anni. Per cui aveva dolore alla spalla e la mano ritratta”. “I ragazzi – conclude la psicologa – hanno espresso preoccupazione per gli amici rimasti a bordo. Sicuramente mantenere le persone per molto tempo su una nave in condizioni di incertezza, minori, adulti, donne, persone che hanno vissuto delle esperienze giù difficili di tortura, di maltrattamento non aiuta il loro benessere psicologico”.