“Commesse e appalti di servizi in Sicilia” da Lidl Italia e Eurospin Italia attraverso “dazioni di denaro a esponenti della famiglia Laudani”. E’ quanto emerge dall’inchiesta condotta dalla Dda di Milano che ruota intorno al clan mafioso catanese che per gli inquirenti era “in grado di garantire il monopolio di tali commesse e la cogestione dei lavori in Sicilia”.
Stando all’ordinanza del gip di Milano Giulio Fanales, emessa su richiesta del pm della Dda Paolo Storari, la presunta associazione per delinquere, composta da 16 persone, avrebbe commesso “una pluralità di delitti di emissione di fatture per operazioni inesistenti, dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, omessa dichiarazione Iva, omesso versamento IVA, appropriazione indebita, ricettazione, traffico di influenze, intestazione fittizia di beni, corruzione tra privati”.
In particolare, Luigi Alecci, Giacomo Politi e Emanuele Micelotta, tutti “con il ruolo di capi e promotori”, nel 2008 avrebbero costituito “dapprima la Sigi Facilities e poi, nel 2015, la Sigilog, società consortile a cui fanno capo una serie di imprese, che si occupano di logistica e servizi alle imprese, intestate a prestanome al fine di permettere agli indagati una totale mimetizzazione”.
Queste imprese, poi, come si legge sempre nell’ordinanza, avrebbero versato somme di denaro a Simone Suriano “dipendente Lidl Italia srl, con il ruolo di associato” e finito oggi agli arresti domiciliari. Suriano sarebbe stato “stabilmente a libro paga al fine di far ottenere appalti a favore di imprese facenti parte dei consorzi Sigi Facilitis e Sigilog”.
La società Lidl Italia, invece, non è indagata. Soldi sarebbero stati versati, poi, anche a Salvatore Orazio Di Mauro, “fino al suo arresto intervenuto in data 10.2.2016”. Di Mauro sarebbe un “esponente di spicco della famiglia Laudani, uomo di fiducia di Laudani Sebastiano classe ’69, detto Iano il grande”.
Le imprese della presunta associazione, tra l’altro, avrebbero versato denaro anche a “Enrico Borzì”, anche lui presunto esponente dell’associazione. I rapporti tra gli indagati e la famiglia Laudani, si legge negli atti, “risalgono a tempo addietro” e tra le finalità dei versamenti c’era anche quella “di provvedere al sostegno dei detenuti della famiglia mafiosa dei Laudani”.
In particolare, secondo quanto si è appreso, sono state poste in amministrazione giudiziaria quattro direzioni generali della società di grande distribuzione Lidl, cui afferiscono circa 200 punti vendita.
“È stata una indagine molto complessa, condotta in perfetta sinergia tra la Polizia e la Gdf. Sono stati seguiti i passaggi di denaro, il denaro raccolto a Milano veniva consegnato alla famiglia Laudani”, commenta il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini. Secondo la magistrata le indagini riguardanti la Lidl hanno accertato che “sapevano chi corrompere, quali fossero le persone giuste da corrompere”.
Intanto il Gruppo Securpolice, che si occupa anche della vigilanza al Palazzo di Giustizia di Milano e di cui si parla nell’inchiesta della Dda milanese, in una nota firmata dal presidente del Cda, Mario Ortello “conferma la propria disponibilità verso gli inquirenti per fornire ogni elemento utile a chiarire circostanze e fatti che vedono, a vario titolo, coinvolte alcune sue società”.
“In merito alla vicenda giudiziaria che vede coinvolte alcune società del Gruppo Securpolice”, si legge ancora nel comunicato, il gruppo esprime “piena fiducia nell’operato della polizia giudiziaria e della magistratura”.
Non è la prima volta che il clan dei Laudani è interessato alla grande distribuzione alimentare. Più di dieci anni fa un’inchiesta della procura distrettuale antimafia di Catania inguaia Sebastiano Scuto, il “re” dei supermercati Despar in Sicilia, fondatore di Aligrup un colosso della distribuzione alimentare con un oltre duemila dipendenti. E’ ritenuto dai magistrati un prestanome dei Laudani tanto che viene condannato in primo e secondo grado, prima a quattro anni e otto mesi e poi a 12 anni. Nei suoi confronti recentemente la Cassazione ha annullato con rinvio il secondo grado e restituito solo in parte il 15 per cento del patrimonio.
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