Intascavano in nero i proventi delle visite fatte in ospedale chiedendo ai pazienti somme da versare in contanti fra 80 e 150 euro a visita.  Nei guai tre dirigenti medici di un noto ospedale di messina ora accusati di  peculato, truffa aggravata e falso in atto pubblico. Nei loro confronti  la Guardia di Finanza di Messina ha eseguito un sequestro preventivo di somme per 65mila euro.

L’inchiesta della Guardia di Finanza

L’operazione scaturisce da una complessa indagine in materia di spesa pubblica nel comparto della sanità, coordinata dalla Procura della Repubblica di Messina, finalizzata a verificare il rispetto della disciplina dell’esercizio dell’Attività Libero Professionale Intramuraria (c.d. “ALPI”), da parte dei tre professionisti cittadini, di cui uno già raggiunto da provvedimento interdittivo lo scorso 9 settembre.
Le indagini sono state effettuate dagli specialisti in materia di spesa pubblica del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Messina, con il coordinamento del pool di magistrati della Procura della Repubblica di Messina che si occupano di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione.
Gli accertamenti sono stati svolti attraverso l’esecuzione di plurime attività tipiche di polizia giudiziaria, come perquisizioni, acquisizioni di documenti, attività di osservazione e pedinamento, nonché articolate ricostruzioni contabili, che hanno trovato riscontro nelle intercettazioni telefoniche.

Due medici si aggiungono al primo indagato

Al primo indagato si aggiungono, così altri due dirigenti medici, un endocrinologo di 66 anni (D.F.C. le sue iniziali) e un cardiologo di 65 (S.S.). I riscontri, secondo il provvedimento del Giudice delle Indagini Preliminari “costituiscono una sicura conferma alla sistematica attività di visite in studio privato” (non autorizzata), in quanto sono stati “trovati pazienti in attesa di essere visitati, agende e strumentazioni che comprovano la suddetta attività”.

Un sistema proseguito durante la pandemia

L’operazione, peraltro proseguita in pieno periodo pandemico, ha permesso di contestare agli indagati
i pagamenti ricevuti in contanti direttamente nelle mani dei medici (“oggetto del peculato” e dell’odierno sequestro preventivo) ma anche la falsità in atto pubblico per aver, in alcune circostanze, attestato visite prestate in ospedale, mentre – di fatto – i pazienti venivano ricevuti presso uno studio privato esterno al nosocomio;  la percezione indebita della indennità aggiuntiva stipendiale “di esclusività” del rapporto d’impiego pubblico (esclusività d’impiego non onorata) e le somme percepite per quella parte di attività svolta regolarmente all’interno delle mura ospedaliere.

La truffa contestata al primo indagato

Per uno dei tre indagati, M.F.di 52 anni, il competente Giudice per le Indagini Preliminari ha poi ritenuto sussistente l’ipotesi di truffa aggravata ai danni dell’Ente pubblico, per la percezione dell’indennità di esclusività, avendo ingannato il datore di lavoro per non aver rispettato l’obbligo di unicità d’impiego, disponendo il sequestro delle somme percepite.

Posizioni diverse fra i tre indagati

La realtà emersa dalle indagini, tuttavia, in riferimento ai tre destinatari della misura cautelare del sequestro è risultata nettamente diversa. Nel dettaglio, i professionisti, tutti operanti all’interno del medesimo ospedale, legati all’azienda sanitaria da un contratto che prevedeva un rapporto di esclusività, effettuavano visite specialistiche all’interno del reparto, richiedendo e ricevendo da una significativa platea di clienti il pagamento in contanti delle relative visite specialistiche, omettendo di rilasciare qualsiasi ricevuta fiscale, nonché di versare all’azienda sanitaria la percentuale dovuta, ovvero ricevevano i pazienti in studi privati non dichiarati al fisco.
Uno dei medici indagati giungeva, addirittura, per l’utenza che richiedeva l’emissione del documento fiscale, comunque pagando in contanti, a far effettuare la prenotazione al Centro Unico di Prenotazioni solo a posteriori, all’ospedale che emetteva una ricevuta riportante, inevitabilmente, una data successiva alla visita effettuata.

Scattava, così, il sequestro preventivo del profitto dell’ipotesi di reato di peculato e truffa aggravata (a seconda dei casi), per una somma complessiva di oltre 65.000 euro.