Un esposto ai carabinieri di Trevignano contro Gisella Cardia, ovvero al secolo Maria Giuseppa Scarpulla, la sedicente veggente di origine messinese custode della statua di una madonna che lacrima

Lo ha consegnato un investigatore privato: l’atto, che contiene accuse contro Cardia, sarà poi trasmesso alla Procura di Civitavecchia che deciderà se aprire un fascicolo. Lo stesso investigatore privato, secondo quanto riferito da organi di stampa, asserisce che dopo alcune analisi sarebbe stato appurato che la lacrime sarebbero compatibili con sangue di maiale.

Sul caso della madonna di Trevignano la diocesi di Civitacastellana ha istituito una commissione per effettuare “un’indagine previa, finalizzata ad approfondire l’eventuale fenomenologia dei fatti, che si verificano da qualche tempo a Trevignano Romano”.
Ogni 3 del mese nella cittadina laziale si radunano diverse persone per presunte apparizioni della Madonna. I presunti
veggenti hanno anche aperto un sito e costituito un’associazione.

La siciliana coinvolta

Gisella Cardia qualche settimana fa era stata condannata a due anni di reclusione in primo grado per bancarotta fraudolenta, con pena sospesa.

La donna dopo un percorso lavorativo da imprenditrice si è reinventata, e così ha cambiato anche “identità”: da Maria Giuseppa Scarpulla, è diventata appunto Gisella (che sarebbe il diminutivo di Maria Giuseppa) Cardia (che arriva dal cognome del marito Gianni Cardia). La donna era riuscita a convincere migliaia di persone a radunarsi intorno alla statua della Madonna di Trevignano, il piccolo Comune laziale sul lago di Bracciano, per vedere la statua piangere sangue. La veggente ha creato anche un’associazione alla quale i seguaci possono iscriversi previo pagamento di una tariffa minima di 50 euro.

Le accuse

I capi di imputazione – L’inizio della vicenda giudiziaria risale al 21 febbraio 2013, a quando cioè Gisella non esisteva ancora perché era l’imprenditrice Maria Giuseppa Scarpulla. Dunque, secondo l’accusa, la società della donna, la Majolica italiana, avrebbe stipulato con Giacalone, amministratore unico e liquidatore della società Ceramiche del Tirreno srl, insieme a Caleca, l’amministratore di fatto dell’azienda, un contratto d’affitto per un canone da 108mila euro l’anno, canone ritenuto incongruo e che avrebbe determinato il fallimento della società.

 

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