Al via da stamattina, a Palermo, la IX edizione delle “Giornate dell’Economia del Mezzogiorno”. L’Italia negli ultimi anni ha perso smalto e vigore, è un Paese che in tutte le classifiche degli indicatori più importanti è rimasto indietro.
Nel corso della prima giornata è emerso che bastano alcuni dati per dimostrare i grandi passi indietro che il Paese ha fatto negli ultimi anni. Il primo si è registrato nel turismo. Rispetto al dato mondiale in termini di numero di visitatori l’Italia rimane ora, dietro molti paesi compresa la Spagna; nell’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area ci piazziamo invece dietro Cile, le Isole Caiman e la Polonia, così come nel numero di occupati rispetto alla popolazione complessiva (la Gran Bretagna con popolazione e struttura per età piuttosto simili ha oltre 30 milioni di occupati, contro i 22 milioni dell’Italia). In termini di PIL pro capite poi l’Italia si attesta a 36.130$, contro i 48.110$ del Regno Unito, 44.030$ della Germania e i 42.380$ della Francia.
E’ un destino avverso che ci sta portando fuori dal novero dei paesi industrializzati e che rende difficile una ripresa sempre annunciata e mai veramente consolidata? Oppure è il prevalere di forze sociali inadeguate che pensano di poter distribuire le risorse senza crearle il vero problema? Che sia forse un sistema istituzionale arretrato, un dualismo economico mai risolto e, in fin dei conti, una classe dirigente e politica ormai fuori dalla storia che non riesce ad adottare le soluzioni appropriate per un rilancio possibile il vero problema?
“Noi propendiamo per la seconda ipotesi – spiega il professore Pietro Busetta, economista, presidente della Fondazione Curella – ed è questo il motivo della scelta degli argomenti e del titolo “Dall’ammuina al nuovo ordine sociale”, di questa nona edizione delle Giornate dell’economia del Mezzogiorno e del trentesimo osservatorio congiunturale. L’ammuina è un’antica pratica in voga sulle navi della flotta borbonica. Un comando che veniva impartito ai marinai e che consisteva nel far muovere la ciurma da una parte all’altra dell’imbarcazione simulando, così, grande agitazione ed un grande impegno”.
I fatti dicono che il Sud del Paese si sta spopolando come effetto di un mancato sviluppo dell’area: la peggiore soluzione della questione meridionale per la nostra realtà e per il Paese.
“Le soluzioni potevano essere tre – osserva Busetta – la prima avrebbe dovuto prevedere uno sviluppo economico che assorbisse i circa tre milioni di potenziali lavoratori per avvicinare il rapporto da 1 persona su 4 che lavora 1 su 2 del Regno Unito; la seconda avrebbe previsto di assistere con un sussidio da 700 euro mensili coloro che fossero rimasti fuori dal mercato del lavoro, quei tre milioni nel Mezzogiorno o sette milioni nel Paese. Una soluzione, questa, che costerebbe però 25 miliardi per il Mezzogiorno o 56 miliardi per tutto il Paese, la qual cosa non è praticabile. La terza, infine, sarebbe quella di spopolare l’area in modo da abbassare il rapporto diminuendo il denominatore, portandolo dai 21 milioni di abitanti a 18 -19 in modo da portare il rapporto tra occupati e popolazione ad un valore più vicino 1 a 2 dei Paesi sviluppati. E questa – afferma il professore Busetta – è l’unica strada che si sta percorrendo, considerato che ormai da una decina di anni il numero di occupati del Mezzogiorno, è fermo su quello zoccolo duro dei sei milioni dai quali non ci si riesce a discostare”.
“Il Governo nazionale – conclude Busetta – è dunque chiamato a completare quelle condizioni di Stato minimo che consentano a tutta la Nazione di essere attrattiva. Tutto questo deve essere compreso dal Paese che deve anche riuscire ad avere quella visione di lungo periodo che serve. L’alternativa è la prosecuzione del declino che ormai da oltre vent’anni ci vede non più protagonisti ma figure di secondo piano nella scena mondiale. Per far questo è necessario intervenire con un processo di riforme che riportino il Paese nella posizione che per storia, civiltà e cultura si merita”.
A Palazzo Steri, di mattina, si è parlato, come ormai da tradizione, delle Università del Meridione, che si incontrano per discutere sui temi più attuali che interessano la loro missione e i loro rapporti con i territori. In un mondo che cambia velocemente ci sono luoghi e territori capaci di attirare maggiori risorse, sia economiche che umane, perché garantiscono le migliori opportunità di vita sociale e professionale. La Sicilia presenta criticità che sembrano lontane da essere risolte anche per un’assenza di programmazione che non riesce a fornire le linee guida. In vista di grossi cambiamenti strutturali che investono tutto il Mezzogiorno il confronto tra gli enti di ricerca fondamentali, come le Università, diventa spunto prioritario per il suggerire a tutti gli attori economici un possibile ventaglio di soluzioni di politica economica per trasformare anche la Sicilia in un territorio di crescita.
“Il tema di questa edizione è un po’ provocatorio – ha detto il professore Pietro Busetta, presidente della Fondazione Curella aprendo i lavori. – È Il significato del disordine come qualcosa che sembra un ordine organizzato ma che non porta a nulla, una nuova condizione in un momento in cui nuovi cambiamenti sembrano travolgere il pensiero dominante. Dopo eventi come la Brexit ci ritroviamo con un’Europa non dimezzata ma certamente diminuita. E abbiamo avuto un ulteriore nuovo schiaffo con le elezioni americane. L’Università deve avere un ruolo fondamentale e fungere da collegamento tra enti di ricerca esterni”.
“Bisogna investire su crescita, sviluppo, formazione e innovazione – ha sottolineato nel suo intervento Fabrizio Micari, rettore dell’Università degli Studi di Palermo -. Ogni territorio ha delle sue specificità: bisogna definire una volta e per tutte una strategia regionale che coinvolga le istituzioni. L’Università intende essere partner di questo percorso per contribuire alla formazione di queste idee. Ci sono dati che fanno riflettere, ad esempio, il rapporto tra gli studenti che vanno all’estero per l’Erasmus e quelli che, invece, scelgono la Sicilia è di 4 a 1; ogni anno, infatti, circa 900 universitari scelgono mete straniere e solo 250 di loro optano per l’Isola. In Sicilia, poi, solo due studenti su cinque godono della borsa di studio. Ma ci sono anche dati confortanti – ha affermato Micari -, se in alcuni settori come l’Ingegneria, a cinque anni, il 93% dei laureati ha uno sbocco occupazionale (rispetto al 94%della media nazionale), altri corsi di laurea come Beni culturali che dovrebbero dare più opportunità in Sicilia, sfiorano appena il 50% delle possibilità lavorative post studi per i neo dottori. A Palermo, poi, il 95 per cento delle domande di partecipazione ai dottorati proviene dall’estero”, ha concluso il Rettore.
“L’Università è stata il grande ascensore sociale dello sviluppo italiano – ha detto Adriano Giannola, presidente Svimez -. La nostra università è di livello e produce una ricerca di qualità che si piazza al quarto posto a livello mondiale, ma con risorse estremamente più ridotte rispetto alle altre. Dalla crisi in poi si è passati dal 66 al 55 per cento del tasso di iscrizione universitaria, un dato preoccupante”.
“Le Università del Meridione hanno un problema di attrattività – ha spiegato Fabio Mazzola, pro rettore Università degli Studi di Palermo -. Il dato medio siciliano, ad esempio, è che il 30 per cento degli studenti va a studiare fuori. Ci sono altre regioni del Mezzogiorno, come la Puglia (dove la media è del 40%), dove i dati sono più allarmanti. A Trapani due persone su tre si iscrivono fuori dalla Sicilia. Bisogna muoversi su un duplice binario: una sfida sul territorio ma anche una sfida per aumentare l’appeal dall’esterno, per avere la capacità di internazionalizzarsi. Ma come si può contribuire alla crescita? Attraverso i rapporti con le imprese, ad esempio, con attività di tirocinio. I nuovi paradigmi della crescita sono la sostenibilità, la digitalizzazione e un’economia di condivisione”.
“Il paradigma della crescita deve essere cambiato. Ci sono aspetti di innovazione sociale importanti per affrontare il tema delle diseguaglianze, questo è importante per i processi di sviluppo globale ma anche locale a partire dalle realtà del Mezzogiorno – ha affermato Giacomo Pignataro, rettore dell’Università di Catania -. Bisogna preservare il nostro patrimonio di saperi, rendere la ricerca accessibile. Impresa e mondo della ricerca devono avvicinarsi per trasferirsi la tecnologia e in tutto questo le Università devono essere in grado di attrarre capitale umano. Bisogna avviare una formazione giocata sul lato della sperimentazione. Un tema importante, questo, per il futuro e lo sviluppo delle nostre università”.
“Nella globalizzazione i territori diventano centrali e allora l’Università acquista con essi centralità. Nel contesto che cambia, gli Atenei sono chiamati a riconfigurarsi e a riscoprire attività quali la ricerca e la formazione, ma anche di posizionarsi rispetto al territorio”, ha osservato Michele Limosani, pro rettore dell’Università di Messina.
Ogni anno Svimez con il suo rapporto rappresenta una fotografia sulle condizioni del Mezzogiorno che viene sempre considerato, spesso più a parole che a fatti, un elemento essenziale per il rilancio dell’intero Paese. Il 2015 è stato un anno particolarmente favorevole per diversi aspetti: annata agraria favorevole, crescita del turismo, accelerazione della spesa pubblica per la chiusura del ciclo di programmazione dei Fondi europei 2007 – 2013, occupazione (+94 mila unità). Tutte le regioni meridionali hanno registrato un segno positivo nella crescita del PIL, la migliore performance è della Basilicata (+5,5%), la più contenuta quella di Campania, Puglia e Sardegna (+0,2%). In sintesi nel 2015 il Sud, ha visto crescere il suo PIL dell’1%, più che nel resto del Paese, dove è stato pari allo 0,7%. Ciò è la conseguenza di alcune condizioni peculiari, che non è scontato si ripetano. In questa ripartenza, l’occupazione, la cui dinamica favorevole è stata in parte dovuta alla forte decontribuzione sulle nuove assunzioni col Jobs Act, è stata decisiva per la crescita del prodotto.
La sfida è non lasciare che questa performance conservi i caratteri dell’eccezionalità, e ciò potrà avvenire solo se saranno fatte precise scelte politiche. La crescita del 2015 ha, infatti, ridotto solo parzialmente il depauperamento di risorse e potenziale produttivo provocato dalla crisi e restano i problemi di competitività legati alla dimensione e alla composizione settoriale.
In base ai dati Svimez, la ripresa del Paese è più lenta del previsto. Quest’anno il PIL dovrebbe aumentare dello 0,3% al Sud e dello 0,9% nel resto del Paese. Il principale driver della crescita sarebbe costituito dalla domanda interna, innanzitutto dalla spesa delle famiglie sul territorio (+0,7% nel Sud, +0,6% nel Centro-Nord). Che, nelle regioni centrali e settentrionali, verrebbe affiancata da un’accelerazione nella spesa per gli investimenti totali (+2%), mentre al Sud si fermerebbe al +0,6%. Nel 2017 l’evoluzione congiunturale delle due macro aree sarebbe invece simile: +0,9% nel Sud e +1,1% nel Centro-Nord.
Il nodo vero, ancora una volta, è lo sviluppo economico nazionale, per ottenere il quale il Mezzogiorno può essere un’opportunità. L’incontro, dunque, è un’occasione per riflettere e commentare sui tratti di fondo delle trasformazioni economiche, sociali e demografiche avvenute nell’area dopo sette anni di recessione ininterrotta. E saranno identificati gli elementi che consentano di rendere più solida e durevole la ripartenza dell’economia meridionale e dell’intero Paese, ben oltre la congiuntura.
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