Nessuno sconto di pena per il management di Sicilcassa che consapevolmente, nonostante i ripetuti “segnali di allarme” venuti dalla Banca d’Italia, portò alla bancarotta – da tremila miliardi di vecchie lire – il secondo istituto bancario della Sicilia, comportandosi con “sfrontatezza gestionale” che non merita attenuanti. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi sul crac più grave della storia siciliana, e tra i maggiori scandali economici del Paese.
L’udienza è culminata lo scorso 22 febbraio con le condanne per il board della banca dichiarata fallita nel 1999. Proprio la disinvoltura criminale con la quale sono state concesse almeno 123 operazioni di finanziamento “in favore di grandi gruppi imprenditoriali siciliani con modalità irregolari”, ha spinto i supremi giudici a confermare, a un passo dalla prescrizione, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Palermo il due dicembre 2016 che aveva negato sconti “per la gravità dei fatti”. L’avvocato tributarista Gianni Lapis (Ravenna, 1943)- l’unico entrato in carcere – ha la posizione più ‘difficile’. Condannato per il ‘tesoro’ di Vito Ciancimino ha potuto usufruire solo di cinque mesi di indulto a fronte di una condanna a sei anni e dieci mesi di reclusione, come componente del collegio sindacale. Anche Francesco Mormino (Palermo, 1936) e Marcello Orlando (Cinisi, 1942), componenti del Cda, hanno ricevuto la stessa condanna ma hanno tre anni di indulto. Cinque anni, tre indultati, anche ad Antonio Mosto (Pachino, 1938), ex direttore di Sicilcassa a Catania.
“Era stato nominato direttore della sede di Catania – ricorda la Cassazione – all’indomani della prima ispezione della Banca d’Italia” del 1985-1986 “che aveva determinato la rimozione del precedente direttore, in quanto responsabile di gravi anomalie gestionali sempre nel campo dell’erogazione del credito a quei grandi gruppi catanesi ai quali il nuovo direttore aveva continuato ad erogare credito, pur consapevole degli esiti di quella ispezione e delle irregolarità accertate”. Per la Suprema Corte, quello di Sicilacassa è un default “di proporzioni devastanti” e gli imputati hanno ricevuto condanne superiori al minimo data “la reiterazione di azioni rivelatesi estremamente perniciose sia per la banca che per l’intera economia siciliana, viste le dimensioni economiche, ma anche storico-sociali dell’istituto di credito”.
La Cassazione respinge la tesi difensiva che il crac sia figlio della “crisi della imprenditoria siciliana che avrebbe alterato l’equilibrio nei rapporti di debito con le banche”. “Gli organi di vigilanza bancaria si determinarono a concedere l’autorizzazione alla trasformazione da Cassa di Risparmio per le province siciliane Vittorie Emanuele a Sicilcassa – ricorda il verdetto 18517 – proprio per salvaguardare, con il contributo della Regione siciliana e di soci privati, il patrimonio della banca dissestata”. “Ciò significa – prosegue la sentenza – che la crisi dell’imprenditoria siciliana era stata tenuta ben presente nell’evoluzione dell’istituto ma che, tuttavia, non aveva potuto arginare le perdite determinate dalla dissennata gestione dei finanziamenti in favore dei grandi gruppi”. Una delle principali esposizioni era con la famiglia catanese del costruttore e cavaliere del lavoro Gaetano Graci.
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