Terza ed ultima puntata del dizionario semiserio di questo anno orribile. Siamo arrivati alla lettera P. Non resisto, credo che la morte di Paolo Rossi sia stata uno choc per tutti quegli italiani, ormai oltre gli anta, che hanno vissuto il Mundial 82. Paolo Rossi era un ragazzo come noi, recita il ritornello di una canzone di Venditti.

Ed è vero. Paolo Rossi campione comune, lontano dalla ribalta. Un esempio. Caduto nella polvere, si è rialzato ed ha trionfato. Da giovane lo ricordiamo con quella maglia biancorossa del Lanerossi Vicenza di cui era trascinatore assoluto. Cresciuto nelle giovanili della Juve, venne strappato alla Vecchia Signora da un Perugia arrembante che voleva conquistare il mondo del pallone. Con Paolo Rossi e Renato Curi. Poi venne l’onta del calcioscommesse, del processo e degli anni di squalifica. Paolo Rossi subì in silenzio una condanna ingiusta. Era stato trascinato dentro quella storia da un falso amico. E pagò le conseguenze del suo essere una persona perbene. Nessuno credeva che sarebbe tornato ad essere un campione. Nessuno tranne un vecchio cocciuto friulano: Enzo Bearzot.

Portò Paolo Rossi ai Mondiali sfidando tutta la stampa nazionale che invocava – e non senza ragioni – la convocazione di Roberto Pruzzo. Nella Roma segnava goal a grappoli. Ma il Vecio tenne duro e portò Paolo in Spagna. Dopo tre partite drammatiche, col rischio di essere eliminati al primo turno, ai quarti di finale ci toccarono Argentina e Brasile. Eravamo spacciati. Superammo l’Argentina di Maradona grazie al controllo asfissiante di Claudio Gentile, letteralmente aggrappato alle caviglie del Pibe de Oro. Vincemmo ma Paolo Rossi era ancora l’ombra di sé stesso. Io non festeggiai mai quella partita. L’avrei dovuta guardare con mio padre. Non tornò mai a casa. Era stato ucciso, crivellato di colpi, a pochi metri dal carcere di Termini Imerese. Poi, venne il pomeriggio del Sarrià. E Paolo Rossi diventò Pablito. Ed io ero un ragazzo col cuore a pezzi.

Le altre lettere del dizionario le vorrei saltare a piè pari. La morte di Pablito, a metà dicembre, ha riaperto quella mia vecchia ferita. Non vedo l’ora che finiscano questi 366 giorni di tragedia mondiale. Ma per coerenza ed in buona sintesi, concludo quello che ho iniziato.

Alla lettera Q vorrei citare QANON il plot complottista che ha invaso la rete. Scudieri del presidente Trump hanno pronosticato ogni genere di evento, dal viaggio nel tempo alla rielezione di Trump. Non demordono, sono ancora attivi nonostante non abbiano mai azzeccato mezza previsione.

Alla lettera R la nomination è per quello sconosciuto dal nome Recovery Fund. Ne vedremo delle belle. Fino ad oggi, con buona pace dei filogovernativi, i nostri progetti per attingere a quei fondi europei sono soltanto delle banali dichiarazioni d’intenti, un pó di fuffa e molti termini inglesi. Alla lettera S la nostra amata e povera Sicilia. Terra bellissima che merita ancora l’etichetta che le affibbiò a suo tempo Freud: “la più bella regione d’Italia: un’orgia inaudita di colori, di profumi, di luci, una grande goduria”. Nonostante tutto e tutti.

T come Termini Imerese, dove quasi 700 lavoratori hanno dovuto aspettare l’ultimo dell’anno per l’ennesimo rinnovo della cassa integrazione. U come Unione Europea: abbiamo perso un pezzo importante – la Gran Bretagna – e vediamo scricchiolare la casa comune. V come virologi, ormai considerati dei santoni. Burioni, Galli, Bassetti, Capua, abbiamo imparato a conoscerli ma ancora non abbiamo capito cosa dicano. Ognuno ha il suo punto di vista, ognuno ha la sua tesi. Non lo fanno apposta ma ci terrorizzano con questo modo di comunicare scomposto e contraddittorio.

Infine la Z. Come zero, il voto per questo 2020 che ci lascia. Ha cambiato il mondo e noi lo salutiamo con un bel calcio nel sedere. Non farti vedere più da queste parti maledetto 2020…