Per il consumo abituale, da parte di adulti in buona salute, il ghiaccio alimentare italiano è quasi sempre sicuro, anche se si deve fare di meglio. Soprattutto da parte delle piccole realtà di autoproduzione.

A un anno dalla sottoscrizione e dal recepimento, da parte del Ministero della Salute, del “Manuale di corretta prassi operativa per la produzione di ghiaccio alimentare” (pubblicato anche sul sito www.salute.gov.it/portale ), sono questi i risultati della ricerca condotta sul ghiaccio prodotto in Italia per essere aggiunto a bibite e cocktail che è stata presentata ieri mattina a Villa Igiea di Palermo. Ma la ricerca ha evidenziato alcuni “Punti oscuri”: nella maggior parte dei casi esaminati, infatti, il ghiaccio non è a norma.

Ottenere un ghiaccio più sicuro per l’uso alimentare si deve e si può.
Lo dimostra uno studio in corso all’Università di Palermo (Dipartimento Scienze Agrarie e Forestali), condotto dal gruppo di Luca Settanni, che ha messo a confronto il ghiaccio prodotto da 5 industrie di settore, da 5 attività di ristorazione (autoproduzione), infine da 5 freezer casalinghi. «Sappiamo quali sono gli standard di igiene dell’acqua e quali microrganismi si possono rilevare alle T di analisi richieste (22 °C per lo Pseudomonas e 37 °C per Coliformi ed Enterobatteri). Qui invece ci siamo occupati del ghiaccio, una matrice che, dal punto di vista della selezione e della sopravvivenza di microrganismi contaminanti, ha ancora molto da raccontare» premette Settanni.

Per saperne di più, sono state esaminate le tre aree produttive principali del ghiaccio, cioè l’industria (IN), i Bar/Pub (BP) e i freezer di casa (HM), scegliendo in modo random 5 realtà per ciascuna.

Da qui sono stati prelevati, in due tornate successive a distanza di un mese, i campioni di cubetti da lasciar liquefare e analizzare: «Questi risultati sono preliminari e rappresentano solo la prima parte della ricerca. Stiamo infatti procedendo anche all’analisi microbiologica dopo contatto con le bevande (zuccherine, o addizionate di CO2, o alcoliche, distinguendo tra diversi tipi di alcolici).

«Tutti i dati saranno disponibili per Novembre, quando saranno presentati a Barcellona al “Food Factor”. Questo congresso riunisce ricerca universitaria e industriale sui temi della sicurezza di filiera per cibi e bevande, della sostenibilità ambientale e della prevenzione degli sprechi» precisa Settanni.

«Tornando al ghiaccio, le nostre analisi hanno rilevato, nelle campionature di tre Bar/Pub (BP) su cinque, concentrazioni consistenti di Enterococchi; in uno su cinque i livelli di Pseudomonas erano consistenti; infine, in tutti i cubetti BP erano presenti coliformi. Campionature industriali (IN): in due su 5 erano presenti Enterococchi, in uno abbiamo rilevato Pseudomonas, mentre sempre assenti nel ghiaccio IN erano i Coliformi; infine, tutti i cubetti da freezer ospitavano Pseudomonas e, in un caso, anche i Coliformi».

Come interpretare questi dati? «Secondo le disposizioni di Legge, nell’acqua potabile Enterococchi e Coliformi dovrebbero essere sempre assenti, quindi non dovrebbero essere presenti neppure nel ghiaccio. È indispensabile perciò capire quali sono i passaggi produttivi a maggior rischio».

«Gli Enterococchi sono sotto costante osservazione da parte delle Autorità sanitarie» precisa Settanni. «Inoltre si sa che possono trasferire a chi li ingerisce la resistenza agli antibiotici. Patogeni sono invece alcuni Coliformi, benché le concentrazioni rilevate in questa campionatura possano essere efficacemente neutralizzate dal sistema immunitario di adulti sani. Ciò che non sempre accade nelle persone fragili, come i bambini, gli anziani, o i soggetti con ridotta capacità di difesa immunitaria».

«Aggiungo infine che, in tutti i 15 campioni, sono presenti contaminanti tipici delle tubature e che, soprattutto nel ghiaccio casalingo, abbiamo rilevato molte muffe. La loro pericolosità è scarsa. Ma è chiaro quanto sia sempre opportuno proteggere i contenitori in cui si fa il ghiaccio di casa dal contatto con il diverso contenuto alimentare del freezer, così come dalla sfarinatura della brina, che imprigiona le particelle di polvere e cibi».

Commenta i risultati Carlo Stucchi, Presidente dell’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare (INGA): «Vorrei prima di tutto ricordare i volumi italiani di produzione del ghiaccio per uso alimentare: prevale sempre il ghiaccio di autoproduzione da piccole/medie realtà di ristorazione, che si aggira sulle 200 mila tonnellate annue.
Il ghiaccio di provenienza industriale, invece, ha ancora una quota minoritaria, producendo circa 20 mila tonn/anno».

“Anche alla luce di questi dati, i risultati della ricerca condotta all’Università di Palermo assumono particolare rilevanza. Pur emergendo da un campione non esteso, tali evidenze dimostrano che la produzione del ghiaccio per uso alimentare deve essere meglio tutelata, soprattutto per quanto riguarda l’autoproduzione destinata alla ristorazione collettiva.

A garanzia del consumatore, é buona prassi che l´autoproduzione nei locali pubblici rientri all´interno delle procedure H.a.c.c.p. e che la produzione del ghiaccio venga inserita all´interno di tale manuale.

In alternativa il ghiaccio per uso alimentare puó essere acquistato presso ditte specializzate, aziende produttrici di ghiaccio alimentare confezionato certificato”.

«Il “Manuale per la corretta prassi operativa per la produzione di ghiaccio alimentare” redatto con la supervisione del Ministero della Salute, ha da un anno fornito per la prima volta in Italia (e in Europa), un elenco dettagliato di tutte le procedure in grado di garantire che la filiera del ghiaccio offra al consumatore un prodotto privo di contaminanti di qualunque natura: fisici, chimici, ma soprattutto biologici».

Occorre quindi un’azione più incisiva da parte delle Istituzioni? «Senz’altro» conclude Stucchi. «Da questo punto di vista l’Assessorato alla Salute della Regione Sicilia, in accordo con i NAS e le Asl, con lo stile puntuale e rigoroso che ha sempre contraddistinto questa istituzione, è attivo sul territorio per il rispetto di quanto indicato dal Manuale sostenendo azioni incisive di controllo da parte delle autorità competenti».

Aggiunge Leopoldo Lipocelli dell’Inga: «Rispetto agli altri paesi d’Europa, in Italia siamo molto avanti sulla tematica del ghiaccio, ma il concetto che va fatto comprendere è questo: utilizzare acqua potabile per fare il ghiaccio non vuol dire avere ghiaccio pulito e non contaminato. Ci sono tanti passaggi in cui il ghiaccio può venire contaminato. Immaginiamo in un bar che utilizza la macchina per la produzione del ghiaccio: affinchè il ghiaccio sia sicuro deve essere regolarmente manutenuta, i filtri devono essere cambiati periodicamente e deve essere riposta in un luogo salubre e adeguato. Ogni anno viene stimato un consumo di ghiaccio di 200 milioni di chili: il ghiaccio è un alimento e deve essere gestito in maniera adeguata».

Insomma il rischio esiste, ma lo studio è ancora in fase embrionale per lanciare l’allarme: «Attenzione – dice Simone De Martino dell’Inga – al messaggio che viene trasmesso. E’ vero che il ghiaccio che è stato campionato non rispettava i parametri previsti dalla legge, ma è anche vero che è presto per dire quanto sia pericoloso. Al momento la cosa più sicura è quella di affidarsi alle aziende che producono ghiaccio certificato, per non togliersi il piacere di un cocktail ghiacciato in queste afose giornate estive».

Per maggiori informazioni, consulta anche www.ghiaccioalimentare.it

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