Una impronta digitale non basta a condannare un presunto ladro. Una sentenza del Tribunale di Palermo è destinata a stravolgere il sistema delle indagini. D’ora in poi l’accusa non dovrà più solo presentare una impronta ma anche dimostrare quando questa è stata lasciata.
La vicenda
È stata rinvenuta una traccia papillare perfettamente compatibile con l’impronta digitale di un uomo: il tribunale di Palermo lo assolve. Una decisione destinata a far discutere, quella emessa di recente dalla IV Sezione Penale, che segna una svolta nell’approccio all’uso delle prove scientifiche nei procedimenti penali.
Il caso riguarda un furto aggravato avvenuto il 15 luglio 2014. Nonostante il riscontro certo tra l’impronta rinvenuta sulla scena del crimine e quella dell’imputato, con una corrispondenza del 100%, i giudici hanno ritenuto insufficiente la sola presenza della traccia per dimostrare la responsabilità dell’uomo, in assenza di ulteriori elementi.
Il rinvenimento tardivo
Il furto in un’abitazione e il rinvenimento, 4 anni più tardi, di un’impronta digitale su una bomboletta di insetticida spray non ha convinto la difesa: a seguito di una consulenza tecnica svolta dal criminologo forense Umberto Mendola, si è concluso che la sola prova in possesso degli investigatori non era abbastanza per condannare l’uomo.
“Il fatto risale al 2014, – dice Mendola – quando, nel corso dei rilievi condotti in un appartamento dove era avvenuto un furto, la Polizia scientifica rilevava, sulla bomboletta spray di un’insetticida, una chiara impronta digitale che non apparteneva ai proprietari della casa. L’impronta veniva comparata con quelle dell’archivio, senza un esito positivo. Quattro anni dopo, però, a un uomo, arrestato per un altro, analogo episodio, venivano rilevate le impronte che, a un successivo raffronto, risultavano identiche a quelle sulla bomboletta del 2014. Gli veniva dunque contestata anche la partecipazione a quel lontano crimine – aggiunge – un’impronta digitale, essendo il prodotto di un accumulo di sostanze organiche, non solo può essere rilevata, ma potrebbe e dovrebbe essere anche “datata” in assenza di altre prove concorrenti, l’impronta digitale sola non può essere sufficiente per inchiodare un uomo a una precisa responsabilità”.
“Le impronte digitali non sono prove decisive”
In poche parole, la difesa dell’imputato, rappresentata dall’avvocato Carmelo Ferrara che si è avvalso delle competenza di Mendola ha stabilito che la traccia papilare, seppur utile, non è da considerare automaticamente una prova decisiva se non accompagnata da una contestualizzazione temporale.
A seguito della consulenza emessa dal criminologo, il tribunale ha accolto la tesi e l’imputato è stato assolto con formula piena.
Secondo il criminologo, questo caso potrebbe avere importanti ripercussioni anche su altri procedimenti, in particolare sui cosiddetti “cold case”, ovvero i casi irrisolti riaperti dopo molti anni grazie a nuove tecnologie investigative. “Non basta più trovare una traccia biologica per dichiarare qualcuno colpevole – ha spiegato – bisogna anche capire quando e in quale contesto quella traccia è stata lasciata”.
Il “futuro” dei casi simili
Una delle possibilità, dal momento che il Pubblico Ministero ha deciso di non impugnare la sentenza, è che possa passare in giudicato e diventare un precedente per i casi simili. Alla luce di quanto accaduto, il principio che se ne ricava è: la presenza di un’impronta digitale, se non accompagnata da ulteriori dati significativi, non è sufficiente a dimostrare la colpevolezza di una persona.
Mendola: “Tutte le tracce vanno datate
“Lasciare le impronte sul luogo del delitto non significa automaticamente essere l’autore del reato – riassume nel suo commento il criminologo – Le impronte e le tracce biologiche devono essere datate!”
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