“If I were in your shoes”, dicono gli inglesi, espressione che noi traduciamo con “se fossi nei tuoi panni”. Inizia così una lunga lettera di sfogo di Gianluca Calì, l’imprenditore, che aveva denunciato i suoi estorsori in Sicilia, divenuto dunque paladino antimafia e che aveva presentato altre due denunce a Milano. Nei giorni scorsi la Procura ha definito gli episodi non riconducibili a minacce mafiose ma a fatti di assoluta normalità.
Uno ‘sbugiardamento’ che a Calì proprio non è andato giù “Fino a un paio di giorni fa – dice – ero convinto che le mie scarpe e i miei panni fossero quelli – scomodissimi, che non auguro a nessuno – di imprenditore bersagliato dalla mafia. Scopro invece, da un articolo datato 8 giugno (“False le minacce mafiose”, la Procura smentisce Calì), di indossare quelli infamanti di – cito – “finta immaginetta di paladino antimafia”, in quanto si è dato corda “a chi strumentalizza l’antimafia per interesse”.
“Io sfido chiunque sano di mente a non fare qualsiasi cosa per difendere la sicurezza della sua famiglia e dei propri figli – dice a BlogSicilia Calì nello spiegare il perché della sua lettera – non ho mai denunciato cosa non avvenute. non spetta a me interpretare i fatti ma la tensione è evidente e io mi sono limitato a proteggere la mia famiglia”
“L’articolo riferisce del provvedimento della Dda milanese – continua invece la lettera -, che ha respinto la mia istanza di accesso al Fondo di solidarietà per vittime di estorsione e usura (ad oggi nulla mi è stato concesso anche se sono stato dichiarato beneficiario della legge 44/99 dalla Prefettura di Palermo nel Febbraio 2016). Decisione – dice Calì – che, doverosamente, rispetto”
Ma Calì non ha digerito il ‘condimento’ di questa pietanza e precisa: “da quando ho deciso di non pagare il pizzo alle cosche di Bagheria, e da quando ho rilevato una villa di Michele Greco per farne struttura ricettive, le intimidazioni che ho subito dalla mafia non si contano. Parlano le inchieste e le sentenze. La mia vita di imprenditore – continua – appesantita da contenziosi con la burocrazia dello Stato, è stata rovinata. Per questo motivo, quando per ben quattro volte ho sentito minacciata la mia incolumità e quella della mia famiglia (oltre all’episodio dell’uomo che chiede informazioni sui miei figli all’uscita da scuola, ricordo il falso finanziere armato che inscena un controllo nell’agenzia di mia moglie), ho ritenuto doveroso denunciare”.
“Le pressioni che ho subito negli ultimi cinque anni – continua – non mi permettono di rischiare. Apprendo con sollievo che, secondo la Procura, non erano avvertimenti mafiosi. Ma nei ‘miei panni’ mi trovo io, sono panni che forse fanno perdere lucidità, non il senso di protezione verso la mia famiglia e la mia storia”.
“Denunciare la mafia, anche attraverso i social metwork, l’ho sempre considerato non solo un dovere, ma anche un modo per difendermi, per non restare solo, perché tutti non possano dire di non sapere. E non credo all’abbaglio collettivo di giornalisti, programmi tv e istituzioni sulla mia vicenda – aggiunge -: farei un torto alle loro intelligenze.
Il mio interesse è quello di fare l’imprenditore. Libero dal pizzo. Il mio interesse di cittadino è che la mafia sia sconfitta. Cerco di dare il mio modesto contributo di vittima. Non ho immaginette da vendere. Soprattutto col mio volto”.
“E ora, ringraziandovi per l’ospitalità che mi avete concesso – conclude sarcastico – torno a indossare i miei panni e le mie scarpe”.
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