La palermitana (d’adozione) Franca Alaimo è una poetessa di lunga militanza: ha pubblicato decine e decine di raccolte di versi, è presente in diverse prestigiose antologie, ha ottenuto molti riconoscimenti. L’Alaimo è anche una raffinata critica letteraria, e i suoi saggi riguardano quasi esclusivamente la poesia. Pochissimi sono i suoi approcci alla narrativa: qualche racconto o romanzo breve e null’altro.

Adesso la poetessa Franca Alaimo ha però dato alle stampe un originale romanzo (originale per estensione, cifra stilistica, impianto narrativo), “Vite ordinarie” (459 pagine, 20 euro, Ladolfi editore), esplorando un universo a lei sostanzialmente nuovo: quello della prosa.

Che cosa succede quando un poeta scrive un romanzo? Cambia completamente pelle? Scopre d’incanto dentro se stesso una sensibilità diversa da quella che sapeva di possedere? Si adatta al nuovo registro di scrittura oppure vi lascia la traccia, l’impronta del suo essere poeta?
“Vite ordinarie” presenta già un primo motivo d’interesse: dà una risposta alle domande che ci siamo posti: quali segni imprime un poeta in un’opera di prosa.

Il titolo del romanzo è di per sé eloquente, “Vite ordinarie”: tra le sue pagine scorrono, intersecandosi tra di loro, tantissime vite; sono “ordinarie” perché appartengono o sono appartenute alla quotidianità: ma ciascuna di essa, nella sua unicità, ha qualcosa di speciale, alcune in modo meno apparente, altre più spiccatamente.

La trama si racconta in poche righe. Giovanna, la protagonista principale, apprende della morte della cugina Nina, di lei di qualche anno più grande; il loro è un legame profondissimo: sono cresciute insieme e insieme hanno vissuto tantissime esperienze. Attorno al cadavere di Nina, nei riti consueti che accompagnano la morte (il viavai di visite, i fiori, le varie manifestazioni di condoglianze), Giovanna incontra tantissime persone che le accendono i ricordi del suo passato: ricordi dell’infanzia, della giovinezza, di diversi momenti della sua esistenza.

Il romanzo ruota attorno alle vite che riaffiorano, in questa triste evenienza, nella memoria di Giovanna, alle riflessioni e agli interrogativi che quelle vite le provocano e al rapporto con la cugina. L’architettura del romanzo è semplice e complessa allo stesso tempo: è semplice perché si regge su un unico avvenimento (la morte di Nina) da cui si diramano diversi frammenti di vite e di storie; è complessa nell’accavallarsi di fatti e vicende risalenti al passato, per cui la narrazione si basa su continui flashback al punto di caratterizzarsi per la sua struttura quasi cinematografica.

Giovanna è il personaggio dentro cui si nasconde l’autrice in un romanzo chiaramente autobiografico, con tutte le licenze s’intende proprie delle autobiografie in forma di romanzo. E’ una donna molto sensibile, libera e trasgressiva. Coltiva sin da piccola la passione per la letteratura e, in particolare, per la poesia. Il bisogno di poesia le si manifesta sin da piccola anche per colmare un vuoto affettivo: è cresciuta in una famiglia adottiva alla quale i suoi genitori l’hanno affidata nei primi anni di vita e le manca la madre di cui le restano vaghi e tuttavia vivi ricordi.

Tanto ribelle e ostile al conformismo è Giovanna, tanto remissiva e incline (per debolezza? senso di obbedienza?) alle convenzioni è la cugina Nina. Il ritratto psicologico di Nina, donna con “la capacità di essere compassionevole” ma dall’esistenza incompiuta, rivela le abilità introspettive della scrittrice-poetessa Alaimo, e la contrapposizione tra le due figure centrali (appunto Giovanna e Nina) è uno degli architravi su cui si regge il romanzo.

Nel racconto delle “vite ordinarie” s’intrecciano inevitabilmente le realtà del privato e quelle pubbliche: sicché echeggiano, tra le pagine del romanzo, la strage di Palermo del ’60 durante il governo Tambroni e la contestazione studentesca del ’68. E teatro di “Vite ordinarie” è Palermo (quella dei decenni passati): leggendo il romanzo troviamo le piazze, le vie, i vicoli della città e persino ne sentiamo gli odori e i rumori (bella la copertina di Daìta Martnez che ritrae ‘A Vucciria).

Il romanzo, in questa sua carrellata di storie e ricordi stimolati da un evento luttuoso, da un canto non si sottrae alle riflessioni sul senso del tempo, dell’esistenza e della morte (ma le riflessioni sono appena accennate per non appesantire la narrazione), dall’altro disegna squarci di vita e personaggi non privi di colore, con assenza però di richiami folkloristici e di maniera e con vivacità popolare accompagnata dal tocco poetico tipico dell’autrice.

Ecco perciò in una piccola taverna Totuccio che, quando è più brillo del solito, invoca le cosce di Ninetta (l’amata morta in circostanze singolarmente accidentali), le emozioni di nonno Saro quando scorge, nel suo viaggio verso il Nuovo Continente, la statua della Libertà, lo zio Pino e la zia Elisa che leggono insieme e contemporaneamente lo stesso libro fermandosi l’uno quando si ferma l’altra, lo zio Severino (papà di Nina), calzolaio autodidatta comunista con il mito di Pasolini e con la sua personalissima filosofia di vita legata alle scarpe.

La poetessa Franca Alaimo, alle prese con un genere letterario a lei quasi sconosciuto (come autrice s’intende, non certo come lettrice) se la cava egregiamente: non tradisce affatto la sua vocazione lirica consegnandoci un romanzo atipico nell’attuale panorama narrativo, ma a suo modo accattivante. Atipico nello stile di scrittura, che rinvia ai romanzi dell’Ottocento e del secolo scorso, nel continuo scavo psicologico, negli accenti lirici che ravvivano molte sue pagine.

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